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Il
più anziano dei ciechi gli spiegò la vita, la filosofia, la religione;
gli disse che il mondo (cioè la loro valle) era stato dapprima un
buco vuoto tra le rocce, e poi erano venute cose senz'anima e senza
il dono del tatto, poi i lama e alcune creature di scarso intelletto,
poi ancora gli uomini, e infine gli angeli, che si udivano cantare
e far rumori che battevano dolcemente l'aria, ma che non riuscivano
mai a toccare.
Ciò lasciò Nunez molto perplesso, finchè non pensò agli uccelli.
L'anziano disse ancora a Nunez che il tempo era stato diviso in
caldo e freddo, cioè l'equivalente del giorno e della notte, per
i ciechi; che durante il caldo era bene dormire e durante il freddo
lavorare, cosicchè in quel momento, se non fosse arrivato lui, tutta
la città dei ciechi sarebbe stata immersa nel sonno.
Asserì che Nunez doveva essere stato creato apposta per imparare
e per servire la saggezza ch'essi avevano conquistato, e che nonostante
la sua incoerenza mentale e il suo incespicare doveva farsi coraggio
e far del suo meglio per imparare: a queste parole, un mormorio
d'incoraggiamento corse tra la gente accalcata sulla soglia.
L'anziano allora disse che la notte (poichè i ciechi chiamavano
notte il giorno) era già molto inoltrata. Conveniva che tutti tornassero
a dormire, e Nunez rispose di sì, ma che prima aveva bisogno di
mangiare. Gli portarono da mangiare (latte di lama in una ciotola
e pan nero salato), e lo condussero in un luogo appartato a mangiar
fuori di portata del loro udito, poi a dormire fino all'ora in cui
il freddo, con il calare della sera sui monti, li avrebbe fatti
alzare per riprendere la loro giornata.
Ma Nunez non dormì nè punto nè poco. Rimase invece, là dove lo avevano
lasciato, a riposarsi le membra in posizione seduta, pensando e
ripensando alle circostanze inattese che avevano accolto il suo
arrivo. Ogni tanto gli veniva da ridere, divertito oppure indignato.
"Mente malformata!", diceva, "Non ancora provveduto pienamente di
sensi! Non sospettano, quelli di avere oltraggiato il re, mandato
a loro dal cielo come signore e padrone. Debbo ridurli alla ragione.
Ho da pensarci, da pensare…". Pensava ancora al tramontar del sole.
Nunez aveva una pronta percezione di ciò ch'è bello, e gli parve
che il rosso bagliore dei riflessi sui campi di neve e ghiacciai
che da ogni parte dominavano la valle fosse ciò che di più bello
avesse mai veduto. Da quello splendore inaccessibile, i suoi occhi
si spostarono in basso sul villaggio e i campi irrigati, che rapidamente
venivano sommersi dall'oscurità, e dal più profondo del cuore ringraziò
Dio di avergli concesso il dono della vista. Si sentì chiamare da
una voce che veniva dal villaggio. "Ohilà! Tu, Bogota! Vieni da
questa parte!". Egli si alzò in piedi, sorridendo.
Una volta e per tutte, avrebbe dimostrato a quella gente ciò che
un uomo può fare grazie alla vista. L'avrebbero cercato, senza riuscire
a trovarlo. "Non muoverti, Bogota", disse la voce. Egli rise silenziosamente
e fece di lato due passi furtivi fuori del pensiero. "Non calpestare
l'erba, Bogota; è proibito". Nunez stesso aveva appena udito il
rumore che aveva fatto. Si fermò, stupito. L'uomo che aveva parlato,
stava arrivando di corsa su per il sentiero pezzato. Egli disse,
riportandosi sul sentiero, "Son qui". E il cieco, "Perchè non vieni
quando ti si chiama? Bisogna forse prenderti per mano come un bambino?
Non senti il sentiero quando cammini?". Nunez rise, "Io lo vedo",
disse, "La parola vedo non esiste", disse il cieco, dopo un attimo
di silenzio, "Piantala, con queste sciocchezze, e segui il rumore
dei miei passi".
Un poco seccato, Nunez gli tenne dietro. "Verrà il mio momento",
disse. "Imparerai", disse il cieco, "C'è tanto da imparare al mondo".
Nessuno ti ha mai detto che tra i ciechi l'orbo da un occhio è re?.
"Ciechi? Che cosa vuol dire?", domandò con indifferenza il cieco
senza quasi girare la testa. Quattro giorni trascorsero, e il quinto
trovò il re dei ciechi ancora in incognito, tra i suoi sudditi,
che lo consideravano semplicemente uno straniero goffo e inetto.
Proclamare la sua identità risultava, com'egli ben vedeva, più difficile
di quanto non avesse supposto, e intanto, mentre meditava il suo
coup d'ètat, badava a fare ciò che gli dicevano ad imparava gli
usi e costumi del paese dei ciechi. Soprattutto fastidioso gli parve
lavorare e andare in giro di notte, e decise che la sua prima riforma
sarebbe stata quella. La popolazione, peraltro, conduceva una vita
semplice e laboriosa, con tutte le caratteristiche della virtù e
della felicità, quali l'uomo le intende. Lavoravano, ma non in modo
opprimente. Disponevano di cibo e vesti in quantità sufficiente
ai loro bisogni. Avevano giorni e periodi dedicati al riposo. Tenevano
in grande onore la musica e il canto. Conoscevano l'amore. E avevano
pochi bambini.
Era stupefacente con quanta sicurezza e precisione circolavano nel
loro mondo bene ordinato. Capite, tutto era predisposto a misura
delle loro necessità: ogni sentiero della rete che serviva tutta
l'area della valle si dipartiva dagli altri ad angoli costanti ed
era contraddistinto da una tacca speciale nella cordonatura che
lo fiancheggiava; tutti gli ostacoli e le irregolarità erano stati
eliminati già molto tempo prima dai sentieri e dai prati, e tutti
i loro sistemi e criteri erano sorti in modo naturale dalle loro
particolari necessità.
I loro sensi avevano acquistato un'acutezza meravigliosa: erano
in grado di udire e valutare il minimo gesto di un uomo da dodici
passi di distanza; di sentirne persino il battito del cuore. Da
un pezzo, per loro, le intonazioni della voce avevano sostituito
le espressioni del viso, il tatto aveva sostituito i gesti; e lavoravano
di zappa, vanga o forcone con la stessa facilità e sicurezza che
se si fosse trattato di giardinaggio.
Possedevano un senso dell'odorato finissimo, straordinario, tale
da poter distinguere Prontamente le diversità individuali, come
fanno i cani. E badavano al bestiame (i lama, che vivevano tra le
rocce in alto e venivano a cercar cibo e ricovero presso il muro)
con disinvoltura e tranquillità. Quanto fosse agevole e sicura la
loro capacità di movimento, Nunez lo scoprì quando cercò d'imporsi.
Si ribellò solamente dopo aver tentato la via della persuasione.
A più riprese aveva cercato di parlare con loro della vista. "Gente!",
diceva, "Datemi un po' di retta.
Ci sono in me cose che voi non capite". Un paio di volte, uno o
due di loro stettero a sentirlo; se ne rimasero seduti, con i volti
chini, porgendo l'orecchio con intelligenza verso di lui, che faceva
del suo meglio per spiegare che cosa significasse vedere. C'era,
tra gli ascoltatori, una ragazza, dagli occhi meno infiammati e
affossati di quelli degli altri. Si sarebbe creduto che tenesse
timidamente abbassato lo sguardo. Ed egli desiderava in modo particolare
di riuscire a convincerla.
Descrisse le bellezze della vista, lo spettacolo dei monti, il cielo
e l'alba; ma quelli stettero ad ascoltarlo, increduli e divertiti,
passando ben presto alla disapprovazione. Gli dichiararono che invece
i monti non esistevano, e che, là dove terminavano le rocce tra
cui brucavano i lama, finiva il mondo; da quel punto sorgeva la
copertura cavernosa dell'universo, dalla quale cadevano la rugiada
e le valanghe; e quando egli si ostinò a sostenere che, contrariamente
a quanto supponevano, il mondo non aveva fine nè tetto, gli dissero
che i suoi pensieri erano perversi.
Il cielo, le nuvole, le stelle ch'egli si sforzava di descrivere
come meglio poteva, a loro facevano l'impressione di un orrendo
vuoto, di un terribile nulla in luogo del liscio tetto delle cose,
in cui essi credevano: era articolo di fede che il tetto di quella
caverna deliziosamente liscio al tatto.
Egli si accorse che riusciva solo a scandalizzarli e, abbandonando
completamente quell'aspetto della faccenda, cercò di dimostrare
loro i pregi pratici della vista.
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