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HOME PAGE > LIBRI-FILM-MUSICA > DA LEGGERE ONLINE > IL PAESE DEI CIECHI 04
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Storie di fantasia
e di fantascienza

di Herbert G. Wells

Il più anziano dei ciechi gli spiegò la vita, la filosofia, la religione; gli disse che il mondo (cioè la loro valle) era stato dapprima un buco vuoto tra le rocce, e poi erano venute cose senz'anima e senza il dono del tatto, poi i lama e alcune creature di scarso intelletto, poi ancora gli uomini, e infine gli angeli, che si udivano cantare e far rumori che battevano dolcemente l'aria, ma che non riuscivano mai a toccare.

Ciò lasciò Nunez molto perplesso, finchè non pensò agli uccelli. L'anziano disse ancora a Nunez che il tempo era stato diviso in caldo e freddo, cioè l'equivalente del giorno e della notte, per i ciechi; che durante il caldo era bene dormire e durante il freddo lavorare, cosicchè in quel momento, se non fosse arrivato lui, tutta la città dei ciechi sarebbe stata immersa nel sonno.

Asserì che Nunez doveva essere stato creato apposta per imparare e per servire la saggezza ch'essi avevano conquistato, e che nonostante la sua incoerenza mentale e il suo incespicare doveva farsi coraggio e far del suo meglio per imparare: a queste parole, un mormorio d'incoraggiamento corse tra la gente accalcata sulla soglia.

L'anziano allora disse che la notte (poichè i ciechi chiamavano notte il giorno) era già molto inoltrata. Conveniva che tutti tornassero a dormire, e Nunez rispose di sì, ma che prima aveva bisogno di mangiare. Gli portarono da mangiare (latte di lama in una ciotola e pan nero salato), e lo condussero in un luogo appartato a mangiar fuori di portata del loro udito, poi a dormire fino all'ora in cui il freddo, con il calare della sera sui monti, li avrebbe fatti alzare per riprendere la loro giornata.

Ma Nunez non dormì nè punto nè poco. Rimase invece, là dove lo avevano lasciato, a riposarsi le membra in posizione seduta, pensando e ripensando alle circostanze inattese che avevano accolto il suo arrivo. Ogni tanto gli veniva da ridere, divertito oppure indignato. "Mente malformata!", diceva, "Non ancora provveduto pienamente di sensi! Non sospettano, quelli di avere oltraggiato il re, mandato a loro dal cielo come signore e padrone. Debbo ridurli alla ragione. Ho da pensarci, da pensare…". Pensava ancora al tramontar del sole.

Nunez aveva una pronta percezione di ciò ch'è bello, e gli parve che il rosso bagliore dei riflessi sui campi di neve e ghiacciai che da ogni parte dominavano la valle fosse ciò che di più bello avesse mai veduto. Da quello splendore inaccessibile, i suoi occhi si spostarono in basso sul villaggio e i campi irrigati, che rapidamente venivano sommersi dall'oscurità, e dal più profondo del cuore ringraziò Dio di avergli concesso il dono della vista. Si sentì chiamare da una voce che veniva dal villaggio. "Ohilà! Tu, Bogota! Vieni da questa parte!". Egli si alzò in piedi, sorridendo.

Una volta e per tutte, avrebbe dimostrato a quella gente ciò che un uomo può fare grazie alla vista. L'avrebbero cercato, senza riuscire a trovarlo. "Non muoverti, Bogota", disse la voce. Egli rise silenziosamente e fece di lato due passi furtivi fuori del pensiero. "Non calpestare l'erba, Bogota; è proibito". Nunez stesso aveva appena udito il rumore che aveva fatto. Si fermò, stupito. L'uomo che aveva parlato, stava arrivando di corsa su per il sentiero pezzato. Egli disse, riportandosi sul sentiero, "Son qui". E il cieco, "Perchè non vieni quando ti si chiama? Bisogna forse prenderti per mano come un bambino? Non senti il sentiero quando cammini?". Nunez rise, "Io lo vedo", disse, "La parola vedo non esiste", disse il cieco, dopo un attimo di silenzio, "Piantala, con queste sciocchezze, e segui il rumore dei miei passi".

Un poco seccato, Nunez gli tenne dietro. "Verrà il mio momento", disse. "Imparerai", disse il cieco, "C'è tanto da imparare al mondo". Nessuno ti ha mai detto che tra i ciechi l'orbo da un occhio è re?. "Ciechi? Che cosa vuol dire?", domandò con indifferenza il cieco senza quasi girare la testa. Quattro giorni trascorsero, e il quinto trovò il re dei ciechi ancora in incognito, tra i suoi sudditi, che lo consideravano semplicemente uno straniero goffo e inetto.

Proclamare la sua identità risultava, com'egli ben vedeva, più difficile di quanto non avesse supposto, e intanto, mentre meditava il suo coup d'ètat, badava a fare ciò che gli dicevano ad imparava gli usi e costumi del paese dei ciechi. Soprattutto fastidioso gli parve lavorare e andare in giro di notte, e decise che la sua prima riforma sarebbe stata quella. La popolazione, peraltro, conduceva una vita semplice e laboriosa, con tutte le caratteristiche della virtù e della felicità, quali l'uomo le intende. Lavoravano, ma non in modo opprimente. Disponevano di cibo e vesti in quantità sufficiente ai loro bisogni. Avevano giorni e periodi dedicati al riposo. Tenevano in grande onore la musica e il canto. Conoscevano l'amore. E avevano pochi bambini.

Era stupefacente con quanta sicurezza e precisione circolavano nel loro mondo bene ordinato. Capite, tutto era predisposto a misura delle loro necessità: ogni sentiero della rete che serviva tutta l'area della valle si dipartiva dagli altri ad angoli costanti ed era contraddistinto da una tacca speciale nella cordonatura che lo fiancheggiava; tutti gli ostacoli e le irregolarità erano stati eliminati già molto tempo prima dai sentieri e dai prati, e tutti i loro sistemi e criteri erano sorti in modo naturale dalle loro particolari necessità.

I loro sensi avevano acquistato un'acutezza meravigliosa: erano in grado di udire e valutare il minimo gesto di un uomo da dodici passi di distanza; di sentirne persino il battito del cuore. Da un pezzo, per loro, le intonazioni della voce avevano sostituito le espressioni del viso, il tatto aveva sostituito i gesti; e lavoravano di zappa, vanga o forcone con la stessa facilità e sicurezza che se si fosse trattato di giardinaggio.

Possedevano un senso dell'odorato finissimo, straordinario, tale da poter distinguere Prontamente le diversità individuali, come fanno i cani. E badavano al bestiame (i lama, che vivevano tra le rocce in alto e venivano a cercar cibo e ricovero presso il muro) con disinvoltura e tranquillità. Quanto fosse agevole e sicura la loro capacità di movimento, Nunez lo scoprì quando cercò d'imporsi. Si ribellò solamente dopo aver tentato la via della persuasione. A più riprese aveva cercato di parlare con loro della vista. "Gente!", diceva, "Datemi un po' di retta.

Ci sono in me cose che voi non capite". Un paio di volte, uno o due di loro stettero a sentirlo; se ne rimasero seduti, con i volti chini, porgendo l'orecchio con intelligenza verso di lui, che faceva del suo meglio per spiegare che cosa significasse vedere. C'era, tra gli ascoltatori, una ragazza, dagli occhi meno infiammati e affossati di quelli degli altri. Si sarebbe creduto che tenesse timidamente abbassato lo sguardo. Ed egli desiderava in modo particolare di riuscire a convincerla.

Descrisse le bellezze della vista, lo spettacolo dei monti, il cielo e l'alba; ma quelli stettero ad ascoltarlo, increduli e divertiti, passando ben presto alla disapprovazione. Gli dichiararono che invece i monti non esistevano, e che, là dove terminavano le rocce tra cui brucavano i lama, finiva il mondo; da quel punto sorgeva la copertura cavernosa dell'universo, dalla quale cadevano la rugiada e le valanghe; e quando egli si ostinò a sostenere che, contrariamente a quanto supponevano, il mondo non aveva fine nè tetto, gli dissero che i suoi pensieri erano perversi.

Il cielo, le nuvole, le stelle ch'egli si sforzava di descrivere come meglio poteva, a loro facevano l'impressione di un orrendo vuoto, di un terribile nulla in luogo del liscio tetto delle cose, in cui essi credevano: era articolo di fede che il tetto di quella caverna deliziosamente liscio al tatto.

Egli si accorse che riusciva solo a scandalizzarli e, abbandonando completamente quell'aspetto della faccenda, cercò di dimostrare loro i pregi pratici della vista.

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