Elogio alla
Follia
di Erasmo da Rotterdam

Parla la Follia
1. Qualsiasi cosa dicano
di me i mortali - non ignoro, infatti, quanto la Follia sia portata
per bocca anche dai più folli - tuttavia, ecco qui la prova
decisiva che io, io sola, dico, ho il dono di rallegrare gli Dèi
e gli uomini. Non appena mi sono presentata per parlare a questa
affollatissima assemblea, di colpo tutti i volti si sono illuminati
di non so quale insolita ilarità. D'improvviso le vostre
fronti si sono spianate, e mi avete applaudito con una risata così
lieta e amichevole che tutti voi qui presenti, da qualunque parte
mi giri, mi sembrate ebbri del nettare misto a nepènte degli
Dèi d'Omero, mentre prima sedevate cupi e ansiosi come se
foste tornati allora dall'antro di Trofonio. Appena mi avete notata,
avete cambiato subito faccia, come di solito avviene quando il primo
sole mostra alla terra il suo aureo splendore, o quando, dopo un
crudo inverno, all'inizio della primavera, spirano i dolci venti
di Favonio, e tutte le cose mutando di colpo aspetto assumono nuovi
colori e tornano a vivere visibilmente un'altra giovinezza. Così
col mio solo presentarmi sono riuscita a ottenere subito quello
che oratori, peraltro insigni, ottengono a stento con lunga e lungamente
meditata orazione.
2. Perchè poi io sia
venuta qui oggi, e vestita in modo così strano, lo saprete
fra poco, purchè non vi annoi porgere orecchio alle mie parole:
non quell'orecchio, certo, che riservate agli oratori sacri, ma
quello che porgete ai ciarlatani in piazza, ai buffoni, ai pazzerelli:
quell'orecchio che il famoso Mida, un tempo, dedicò alle
parole di Pan. Mi è venuta infatti voglia d'incarnare con
voi per un po' il personaggio del sofista: non di quei sofisti,
ben inteso, che oggi riempiono la testa dei ragazzi di capziose
sciocchezze addestrandoli a risse verbali senza fine, degne di donne
pettegole. Io imiterò quegli antichi che per evitare l'impopolare
appellativo di sapienti, preferirono essere chiamati sofisti. Il
loro proposito era di celebrare con encomi gli Dèi e gli
eroi. Ascolterete dunque un elogio, e non di Ercole o di Solone,
ma il mio: l'elogio della Follia.
3. Certamente, io non faccio
alcun conto di quei sapientoni che vanno blaterando dell'estrema
dissennatezza e tracotanza di chi si loda da sè. Sia pure
folle quanto vogliono; dovranno riconoscerne la coerenza. Che cosa
c'è, infatti, di più coerente della Follia che canta
le proprie lodi? Chi meglio di me potrebbe descrivermi? a meno che
non si dia il caso che a qualcuno io sia più nota che a me
stessa. D'altra parte io trovo questo sistema più modesto,
e non di poco, di quello adottato dalla massa dei grandi e dei sapienti;
costoro, di solito, per una falsa modestia, subornano qualche retore
adulatore, o un poeta dedito al vaniloquio, e lo pagano per sentirlo
cantare le proprie lodi, e cioè un sacco di bugie. Così
il nostro fiore di pudicizia drizza le penne come un pavone, alza
la cresta, mentre lo sfacciato adulatore lo va paragonando, lui
che è un pover'uomo, agli Dèi, e lo propone quale
modello assoluto di virtù, lui che da quel modello sa di
essere lontanissimo. Insomma, veste la cornacchia con le penne altrui,
fa diventare bianco l'Etiope, e di una mosca fa un elefante. Io
invece seguo quel vecchio detto popolare secondo il quale, chi non
trova un altro che lo lodi, fa bene a lodarsi da sè.
Ora, tuttavia, devo esprimere
la mia meraviglia per l'ingratitudine, o, come dire?, per l'indifferenza
dei mortali. Tutti mi fanno la corte e riconoscono di buon grado
i miei benefici, eppure, in tanti secoli, non si è trovato
nessuno che desse voce alla gratitudine con un discorso in lode
della Follia, mentre non è mancato chi con lodi elaborate
ed acconce, e con grande spreco di olio e di sonno, ha tessuto l'elogio
di Busiride, di Falaride, della febbre quartana, delle mosche, della
calvizie, e di altri flagelli del genere.
4. Da me ascolterete un discorso
estemporaneo e non elaborato, ma tanto più vero. Non vorrei
però che lo riteneste composto per farvi vedere quanto sono
brava, come usa il branco dei retori. Costoro, come sapete, di un'orazione
su cui hanno sudato trenta lunghi anni - e qualche volta l'ha fatta
un altro - giurano che l'hanno buttata giù, e magari dettata,
in tre giorni, quasi per svago. A me, invece, è sempre piaciuto
moltissimo dire tutto quello che mi salta in mente.
Nessuno, perciò, si
aspetti da me che, secondo il costume di codesti oratori da strapazzo,
definisca la mia essenza, e tanto meno che la distingua analizzandola.
Sono infatti cose di malaugurio, sia porre dei confini a colei il
cui potere è sconfinato, sia introdurre delle divisioni in
lei, il cui culto è oggetto di così universale consenso.
D'altra parte perchè una definizione, che sarebbe quasi un'ombra
e un'immagine, quando potete vedermi con i vostri occhi?
5. Sono come mi vedete, quell'autentica
dispensatrice di beni che i Latini chiamano Stulticia e i Greci
Morìa.
Che bisogno c'era di dirvi
tutto questo, come se il mio volto non bastasse, come dice la gente,
a mostrare chi sono? come se, pretendendo qualcuno ch'io sia Minerva
o Sofia, non bastasse a smentirlo il mio sguardo, che, senza bisogno
di parole, è lo specchio più schietto dell'animo.
Da me è lontano ogni trucco; non simulo in volto una cosa,
mentre ne ho un'altra nel cuore. Sotto ogni rispetto sono a tal
punto inconfondibile, che non possono tenermi nascosta nemmeno quelli
che si arrogano la maschera e il titolo della Saggezza, e se ne
vanno in giro come scimmie ammantate di porpora o come asini vestiti
della pelle del leone. Eppure, per accorti che siano nel fingere,
le orecchie di Mida, spuntando fuori da qualche parte, li tradiscono.
Ingrati, per Ercole, sono anche quelli che, appartenendo in pieno
alla mia parte, si vergognano a tal segno di fronte alla gente del
mio nome, che lo attribuiscono genericamente agli altri come un
grave insulto. Essendo in realtà costoro pazzi da legare
proprio quando vogliono sembrare sapienti come Talete, potremo senz'altro
chiamarli a buon diritto MORO-SOFI.
6. Anche in questo, infatti,
intendo imitare i retori del nostro tempo, che si credono proprio
degli Dèi se, a mo' delle sanguisughe, mostrano due lingue,
e considerano una grande impresa inserire nel discorso latino, come
in un intarsio, qualche paroletta greca, che magari era proprio
fuori posto. Se poi fanno loro difetto termini esotici, tirano fuori
da pergamene ammuffite quattro o cinque termini arcaici con cui
rendere oscuro il testo al lettore. Così chi riesce a capire
è più soddisfatto di sè, e chi non capisce
ammira tanto di più quanto meno capisce. Tra gli eletti piaceri
dei nostri contemporanei, infatti, c'è anche questo: esaltare
tanto di più una cosa, quanto più è straniera.
I più ambiziosi ridono e applaudono e, come gli asini, muovono
le orecchie, dando ad intendere agli altri di avere capito tutto.
E' proprio così. Ritorno all'argomento.
7. Il nome mio lo sapete,
miei cari... Quale attributo aggiungerò? Quale, se non Arcifolli?
Con quale altro più nobile appellativo potrebbe la dea Follia
chiamare i suoi iniziati? Ma poichè non a molti sono ugualmente
noti i miei maggiori, con l'aiuto delle Muse tenterò di parlarne.
Non il Caos, nè l'Orco,
nè Saturno, nè Giapeto, nè alcun altro di questi
Dèi decrepiti e fuori moda, fu mio padre, ma Pluto lui solo,
[il dio della ricchezza], padre degli uomini e degli Dèi,
con buona pace di Esiodo, di Omero e dello stesso Giove. Un suo
cenno, ora come sempre, mette sottosopra cielo e terra. Il suo arbitrio
decide della guerra e della pace, degli imperi, dei consigli, dei
giudizi, dei comizi, dei matrimoni, dei trattati, delle alleanze,
delle leggi, delle arti, delle cose scherzose e di quelle serie;
da lui dipendono tutti gli affari pubblici e privati degli uomini.
Senza il suo aiuto, tutta la folla degli Dèi, dei poeti,
e, oserò dire, perfino le stesse divinità maggiori,
o non esisterebbero, o vivacchierebbero alla meglio, di briciole.
Chi incorre nella sua ira, neppure Pallade potrebbe aiutarlo. Chi,
invece, ne gode il favore, potrebbe trarre in catene lo stesso Giove
col suo fulmine. Di tale padre io mi glorio. E questo padre non
mi generò dal suo cervello, come Giove la fosca e crudele
Pallade, ma dalla ninfa Neotete [la Giovinezza], di tutte la più
graziosa e lieta. E non mi generò nell'uggioso vincolo del
matrimonio - in cui nacque il famoso fabbro zoppo ma, ed è
molto più dolce, in un amplesso d'amore, come dice il nostro
Omero. Nè, a scanso d'equivoci, mi generò quel Pluto
di Aristofane, già mezzo morto e già cieco, ma quello
in pieno vigore, fervente di giovinezza, e non solo di giovinezza,
ebbro soprattutto di schietto nettare che aveva generosamente bevuto
al banchetto degli Dèi.
8. Se poi volete anche sapere
dove sono nata, visto che oggi nel valutare il grado di nobiltà
attribuiscono la massima importanza al luogo dove si sono messi
fuori i primi vagiti: ebbene, io non sono nata nell'errante Delo,
non tra i flutti del mare, non in grotte profonde, ma proprio nelle
Isole Fortunate, dove tutto cresce senza seme nè aratro.
Là non esiste fatica, vecchiaia, malattie; nei campi non
asfodeli, malva, squilla, lupini o fave, e simili piante da poco.
Da ogni parte ti accarezzano
gli occhi e il naso moly, panacea, nepènte, maggiorana, ambrosia,
loto, rose, viole, giacinti - i giardini d'Adone. Nata fra queste
delizie, non ho cominciato la vita nel pianto; subito ho sorriso
dolcemente a mia madre.
Al sommo figlio di Crono
non invidio la capretta nutrice; ad allattarmi con le loro mammelle
sono state due graziosissime ninfe, Mete l'Ebbrezza, figlia di Bacco,
e Apedia l'Ignoranza, figlia di Pan. Le vedete qui con me, nel gruppo
di tutte le altre mie compagne e seguaci, delle quali se, per Ercole,
vorrete sapere i nomi, da me li sentirete solo in greco.
9. Quella che vedete con
le sopracciglia inarcate è senz'altro Filautia; quella che
sembra ridere con gli occhi, e che batte le mani, è Colacìa;
quella mezza addormentata e vinta dal sonno si chiama Lete; quella
appoggiata sui gomiti e con le mani intrecciate si chiama Misoponia;
l'altra, cinta da un serto di rose, e tutta cosparsa di profumi,
Hedonè; Anoia questa, dai mobili sguardi lascivi. Quella
dalla pelle splendente e dal corpo rigoglioso si chiama Trufè.
Tra le fanciulle potete vedere anche due Dèi: Como e Ipno,
il dio del sonno profondo. Col fedele aiuto di questa mia corte
io signoreggio su tutte le cose, e sono sovrana degli stessi sovrani.
10. Vi ho detto origine,
educazione, compagni. Ora, perchè a qualcuno non paia senza
fondamento la mia pretesa al titolo di dea, drizzate le orecchie
e ascoltate di quanta utilità io sia agli Dèi e agli
uomini, e quanto si estenda il mio potere. Se, infatti, non senza
saggezza qualcuno ha scritto che essere un dio proprio questo significa:
giovare ai mortali; se a buon diritto sono stati accolti nel consesso
degli Dèi coloro ai quali i mortali debbono il vino, il grano,
e simili beni; perchè io non dovrei a buon diritto essere
ritenuta e proclamata l'alfa degli Dèi, dal momento che io,
io sola, sono a tutti prodiga di tutto?
11. lnnanzitutto, che cosa
può esserci di più dolce e prezioso della vita? ma
a chi, se non a me, riportarne la desiderata origine? Non l'asta
di Pallade dal padre possente, nè l'egida di Giove adunatore
di nembi, generano e propagano la stirpe umana. Lo stesso padre
degli Dèi e re degli uomini, al cui cenno trema l'Olimpo
intero, quando vuol fare quello che poi fa sempre, e cioè
generare dei figli, deve deporre quel suo famoso fulmine a tre punte,
deve spogliarsi del titanico sembiante con cui spaventa a suo piacimento
tutti gli Dèi, e, come un povero commediante qualsiasi, deve
assumere la maschera di un altro personaggio. Quanto agli stoici
che si credono così vicini agli Dèi, datemene uno
che sia stoico magari tre o quattro volte, o, se volete, stoico
mille volte! Anche lui dovrà deporre, se non la barba che
è l'insegna della sapienza (comune, a dir il vero, con i
caproni), certamente il suo sussiego. Dovrà spianare la fronte,
mettere da parte i suoi princìpi adamantini, e abbandonarsi
un poco a qualche leggerezza e follia. Se vuole davvero diventare
padre, insomma, anche quel saggio deve chiamare me, proprio me.
E perchè, dal momento
che sto chiacchierando con voi, non essere più esplicita,
secondo il mio costume? E' forse con la testa, col volto, col cuore,
con la mano, con l'orecchio (parti considerate tutte oneste) che
si generano gli Dèi e gli uomini? No davvero! propagatrice
del genere umano è quella parte così assurda e ridicola
che non si può neppure nominare senza ridere. Quello è
il sacro fonte a cui tutto attinge la vita, quello e non la tetrade
pitagorica. E, ditemi, quale uomo vorrebbe porgere il collo al capestro
del matrimonio se prima, secondo la consuetudine di codesti saggi,
ne considerasse gli svantaggi? Quale donna accosterebbe un uomo,
se conoscesse e avesse in mente i pericolosi travagli del parto,
e i fastidi di allevare i figli? Perciò se dovete la vita
al matrimonio, e il matrimonio ad Anoia del mio seguito, comprenderete
quello che dovete a me. D'altra parte quale donna dopo la prima
esperienza vorrebbe riprovarci, se non ci fosse ad assisterla la
presenza di Letes? Venere medesima, protesti pure Lucrezio, non
negherebbe mai che senza l'aiuto della mia divinità la sua
forza sarebbe insufficiente e inutile. Perciò è da
quella nostra ebbrezza giocosa che sono nati i filosofi severi,
a cui ora sono subentrati quelli che il volgo chiama monaci, e i
re ammantati di porpora, i pii sacerdoti, i pontefici, tre volte
santissimi. E infine anche tutto quel consesso degli Dèi
dei poeti, così affollato che a stento può contenerlo
l'Olimpo, pur vasto che sia.
12. Eppure sarebbe ben poco
dovermi il seme e la fonte della vita, se non dimostrassi che quanto
vi è di buono nella vita è anch'esso un mio dono.
E che cos'è poi questa vita? e se le togli il piacere, si
può ancora chiamarla vita? Avete applaudito! Lo sapevo bene,
io, che nessuno di voi era così saggio, anzi così
folle - no, è meglio dire saggio, da non andare d'accordo
con me. Del resto neppure questi stoici disprezzano il piacere,
anche se dissimulano con cura e se, di fronte alla gente, rovesciano
sul piacere ingiurie sanguinose; in realtà solo per distogliere
gli altri e goderne di più, loro stessi. Ditemi, per Giove,
quale momento della vita non sarebbe triste, difficile, brutto,
insipido, fastidioso, senza il piacere, e cioè senza un pizzico
di follia? E di questo è degno testimone il non mai abbastanza
lodato Sofocle con quelle sue splendide parole di elogio per me:
"Dolcissima è la vita nella completa assenza di senno".
Ma è tempo di esaminare
a parte tutta la questione.
13. E, tanto per cominciare,
chi non sa che la prima età dell'uomo è per tutti
di gran lunga la più lieta e gradevole? ma che cosa hanno
i bambini per indurci a baciarli, ad abbracciarli, a vezzeggiarli
tanto, sì che persino il nemico presta loro soccorso? Che
cosa, se non la grazia che viene dalla mancanza di senno, quella
grazia che la provvida natura s'industria d'infondere nei neonati
perchè con una sorta di piacevole compenso possano addolcire
le fatiche di chi li alleva e conciliarsi la simpatia di chi deve
proteggerli? E l'adolescenza che segue l'infanzia, quanto piace
a tutti, quale sincero trasporto suscita, quali amorevoli cure riceve,
con quanta bontà tutti le tendono una mano!
Ma di dove, di grazia, questa
benevolenza per la gioventù? di dove, se non da me? E' per
merito mio che i giovani sono così privi di senno; è
per questo che sono sempre di buon umore. Mentirei, tuttavia, se
non ammettessi che appena sono un po' cresciuti, e con l'esperienza
e l'educazione cominciano ad acquistare una certa maturità,
subito sfiorisce la loro bellezza, s'illanguidisce la loro alacrità,
s'inaridisce la loro attrattiva, vien meno il loro vigore. Quanto
più si allontanano da me, tanto meno vivono, finchè
non sopraggiunge la gravosa vecchiaia, la molesta vecchiaia, odiosa
non solo agli altri, ma anche a se stessa. Nessuno dei mortali riuscirebbe
a sopportarla se, ancora una volta, impietosita da tanto soffrire
non venissi in aiuto io, e, a quel modo che gli Dèi della
fiaba di solito soccorrono con qualche metamorfosi chi è
sul punto di perire, anch'io, per quanto è possibile, non
riportassi all'infanzia quanti sono prossimi alla tomba, onde il
volgo, non senza fondamento, usa chiamarli rimbambiti. Se poi qualcuno
vuol sapere come opero questa trasformazione, neppure su questo
farò misteri.
Conduco i vecchi alla fonte
della mia ninfa Lete, che sgorga nelle Isole Fortunate - il Lete
che scorre agli Inferi è solo un esile ruscello. Lì,
bevute a grandi sorsi le acque dell'oblio, un poco alla volta, dissipati
gli affanni, torneranno bambini.
Ma delirano ormai, non ragionano
più! Certo. E' proprio questo che significa tornare fanciulli.
Forse che essere fanciulli non significa delirare e non avere senno?
e non è proprio questo, il non aver senno, che più
piace di quella età? Chi non vivrebbe come mostro un bambino
con la saggezza di un uomo? Lo conferma il diffuso proverbio: "Odio
il bambino di precoce saggezza". E chi, d'altra parte, vorrebbe
rapporti e legami di familiarità con un vecchio che alla
lunga esperienza di vita unisse pari forza d'animo e acutezza di
giudizio?
Così, per mio dono,
il vecchio delira. E tuttavia questo mio vecchio delirante è
libero dagli affanni che travagliano il saggio; quando si tratta
di bere, è un allegro compagno; non avverte il tedio della
vita, che l'età più vigorosa sopporta a fatica. Talvolta,
come il vecchio di Plauto, torna alle tre famose lettere [AMO],
che se fosse in senno ne sarebbe infelicissimo. Invece per merito
mio è felice, simpatico agli amici, piacevole in compagnia.
Del resto anche in Omero il discorso scorre dalla bocca di Nestore
più dolce del miele, mentre amare sono le parole di Achille;
e, sempre in Omero, i vecchi che se ne stanno seduti insieme sulle
mura parlano con voce soave. In questo senso sono superiori alla
stessa infanzia, che è sì deliziosa, ma non parla,
e, priva della parola, manca del principale diletto della vita,
che è quello di una schietta conversazione. Aggiungi che
ai vecchi piacciono moltissimo i bambini, e altrettanto ai bambini
i vecchi, "perchè il dio spinge sempre il simile verso
il simile". In che differiscono, infatti, se non nelle rughe
e negli anni che nel vecchio sono di più? Per il resto, capelli
sbiaditi, bocca sdentata, corporatura ridotta, desiderio di latte,
balbuzie, garrulità, mancanza di senno, smemoratezza, irriflessione:
in breve, sotto ogni altro aspetto si accordano. Quanto più
invecchiano, tanto più somigliano ai bambini, finchè,
come bambini, senza il tedio della vita, senza il senso della morte,
abbandonano la vita.
14. Paragoni ora chi vuole
questo mio beneficio con le metamorfosi operate dagli altri Dèi.
E non sto a ricordare quello che fanno quando li possiede l'ira;
parlo di coloro che godono di tutta la loro benevolenza: li trasformano
di solito in alberi, uccelli, cicale, e perfino in serpenti, come
se il diventare altro non fosse proprio un morire. Io, invece, restituisco
il medesimo uomo al periodo migliore della vita, al più felice.
Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza,
e vivessero sempre sotto la mia insegna, la vecchiaia neppure ci
sarebbe, e godrebbero felici di un'eterna giovinezza.
Non vi accorgete che gli
uomini austeri, dediti a studi filosofici, o impegnati in faccende
serie e difficili, in genere sono già vecchi prima di essere
stati davvero giovani, e questo per le preoccupazioni e per il costante
e teso dibattito mentale, che un po' alla volta esaurisce gli spiriti
e la linfa vitale?
Al contrario, i miei bei
matti sono tutti grassottelli, lustri, senza una ruga, proprio come
quelli che chiamano porcelli d'Acarnania, immuni, per certo, da
qualunque disturbo senile, a meno che non si trovino a subire in
qualche misura il contagio dei saggi, come capita, poichè
la vita non consente mai una completa felicità.
Valida testimonianza di tutto
questo è il diffuso proverbio secondo cui solo la Follia
è capace di prolungare la giovinezza, altrimenti fuggevolissima,
e di tenere lontana la molesta vecchiaia. Sicchè, non a torto,
si è fatto l'elogio del detto popolare del Brabante: mentre
altrove, di solito, l'età porta saggezza, qui più
s'invecchia e più matti si diventa. Non c'è popolazione,
infatti, più incline di questa a un giocondo abito di vita
e meno portata ad avvertire la tristezza della vecchiaia. Loro vicini,
e dal punto di vista geografico e da quello del costume, sono i
miei Olandesi - e perchè, poi, non dovrei chiamarli miei,
se mi sono così devoti da essersi meritato un soprannome
[di folli] di cui non si vergognano per nulla, che anzi ne traggono
il loro vanto principale?
Vadano pure gli stoltissimi
mortali a cercare le Medee, le Circi, le Veneri, le Aurore, e non
so quale fonte che restituisca loro la giovinezza, quando io sola
posso, e sono solita farlo. Sono io che possiedo quel filtro miracoloso
con cui la figlia di Memnone prolungò la giovinezza di Titone
suo avo. Sono io quella Venere per la cui grazia Faone ringiovanì
a tal segno da essere amato follemente da Saffo. Sono mie le erbe,
se ve ne sono, miei gli incantesimi, la fonte che non solo risuscita
la giovinezza svanita, ma, meglio ancora, la mantiene per sempre.
Perciò, se siete tutti d'accordo su questo, che niente è
meglio della giovinezza, e niente più odioso della vecchiaia,
vi rendete conto, io credo, di quello che dovete a me, che, fugato
un male tanto grande, conservo un così grande bene.
15. Ma perchè parlo
ancora dei mortali? Passate in rassegna tutto il cielo, e possa
chiunque infamare il mio nome se si troverà un solo Dio non
privo di grazia e di pregio che non sia sotto la protezione del
mio nume. Infatti, perchè Bacco è sempre il chiomato
efebo? proprio perchè, pazzo ed ebbro, passa tutta la vita
in conviti, balli, canti e giochi, e non ha proprio nulla a che
fare con Pallade. A tal punto rifugge dal desiderare la fama di
sapiente, da compiacersi di un culto fatto di beffe e di scherzi.
Nè trova offensivo quel detto che gli attribuisce il soprannome
di fatuo, e che suona: "più pazzo di Morico". E
cambiarono il suo nome in Morico perchè i contadini, nella
loro sfrenata allegria, erano soliti impiastricciare di mosto e
di fichi freschi il suo simulacro, che lo ritraeva seduto alle soglie
del tempio.
D'altra parte, quali lazzi
non scaglia contro di lui l'antica commedia? O Dio pazzo, dicono,
degno parto d'una coscia! Ma chi non preferirebbe essere questo
Dio fatuo e dissennato, sempre allegro, sempre giovane, sempre generoso
di svaghi e di piaceri per tutti, piuttosto che quel tortuoso Giove,
temuto da tutti, o Pan che tutto va devastando con i terrori che
diffonde, o Vulcano avvolto di scintille e sempre nero del fumo
della sua fucina, o Pallade medesima dallo sguardo sempre torvo,
terribile con la Gorgone e la lancia? Perchè Cupido è,
invece, sempre fanciullo? Perchè? se non per la sua leggerezza,
per la sua incapacità di fare o pensare qualcosa di assennato.
Perchè la bellezza dell'aurea Venere è sempre in fiore?
Perchè è mia parente e conserva nell'aspetto il colore
di mio padre. Per questa ragione Omero la chiama "l'aurea Afrodite".
Inoltre, stando ai poeti, o agli scultori loro emuli, ride sempre.
E quale nume i Romani venerarono più di Flora, madre di tutti
i piaceri? Se poi si andasse ad esaminare un po' meglio, attraverso
Omero e gli altri poeti, la vita anche degli Dèi ritenuti
più austeri, si scoprirebbe che tutto è pieno di follie.
E perchè poi ricordare le imprese degli altri, quando si
conoscono così bene gli amori e i sollazzi dello stesso Giove
tonante? Quando la fiera Diana, dimentica del sesso nella sua esclusiva
passione per la caccia, muore tuttavia d'amore per Endimione?
Preferirei però che
gli Dèi se le sentissero cantare da Momo, come una volta
accadeva piuttosto spesso. Ma ora lo hanno scaraventato sulla terra
con Ate perchè le sue sagge critiche disturbavano la loro
felicità. Nè alcun mortale si degna di offrirgli ospitalità;
tanto meno poi c'è posto per lui alle corti dei prìncipi,
dove però è sempre ospite d'onore la mia Colacìa,
che va d'accordo con Momo come l'agnello coi lupi.
Allontanato lui, gli Dèi
folleggiano molto più liberamente e gradevolmente, e se la
passano bene davvero, come dice Omero, senza che nessuno li critichi.
Quali scherzi scurrili, infatti, non alimenta il Priapo di legno
di fico? quali divertimenti non procura Mercurio con i suoi furti
ed i suoi trucchi? Perfino Vulcano, al banchetto degli Dèi,
si è abituato alla parte del buffone, facendo ridere il simposio
ora con la sua andatura zoppicante, ora con i suoi frizzi, ora con
le sue facezie. Anche Sileno, il vecchio mandrillo, uso a danzare
il cordace, balla con Polifemo la TRETANELO' [il ballo dei Ciclopi],
mentre le Ninfe danzano a piedi nudi. I Satiri dal piede caprino
rappresentano le atellane, e Pan fa ridere tutti con le sciocche
cantilene che gli Dèi preferiscono al canto delle Muse, specialmente
quando il vino comincia a farsi sentire. Ma perchè raccontare
ora ciò che fanno gli Dèi alla fine del banchetto
dopo una buona bevuta? Follie tali che io stessa, per Ercole, non
riesco a tenermi dal riderne.
A questo punto è meglio
ricordare Arpocrate [il dio del silenzio]: che può succedere
che qualche Dio di Corico sia in ascolto mentre narriamo fatti che
neppure Momo ha potuto rivelare impunemente.
16. E' tempo ormai di seguire
l'esempio di Omero lasciando da parte gli Dèi e tornare sulla
terra per vedere fino a qual punto gioia e fortuna vi si trovino
solo per mio dono.
In primo luogo osservate
con quanta previdenza la natura, madre e artefice del genere umano,
ebbe cura di spargere dappertutto un pizzico di follia. Se, infatti,
secondo la definizione stoica, la saggezza consiste solo nel farsi
guidare dalla ragione, mentre, al contrario, la follia consiste
nel farsi trascinare dalle passioni, perchè la vita umana
non fosse del tutto improntata a malinconica severità, Giove
infuse nell'uomo molta più passione che ragione: press'a
poco nella proporzione di mezz'oncia ad un asse. Relegò inoltre
la ragione in un angolino della testa lasciando il resto del corpo
ai turbamenti delle passioni. Quindi, alla sola ragione contrappose
due specie di violentissimi tiranni: l'ira, che occupa la rocca
del petto e il cuore stesso che è la fonte della vita, e
la concupiscenza che estende il suo dominio fino al basso ventre.
Quanto valga la ragione contro queste due agguerrite avversarie
ce lo dice a sufficienza la condotta abituale degli uomini: la ragione
può solo protestare, e lo fa fino a perderci la voce, enunciando
i princìpi morali; ma quelle, rivoltandosi alla loro regina,
la subissano di grida odiose, finchè lei, prostrata, cede
spontaneamente dichiarandosi vinta.
17. Tuttavia, poichè
l'uomo, nato per far fronte agli affari, doveva ricevere in dote
un po' più di un'oncia di ragione, Giove, per provvedere
debitamente, mi convocò perchè lo consigliassi, come
su tutto il resto, anche a questo proposito; e il mio pronto consiglio
fu degno di me: affiancare all'uomo la donna, animale, sì,
stolto e sciocco, ma deliziosamente spassoso, che nella convivenza
addolcisce con un pizzico di follia la malinconica gravità
del temperamento maschile. Platone, infatti, quando sembra in dubbio
circa la collocazione della donna, se fra gli animali razionali
o fra i bruti, vuole solo sottolineare la straordinaria follia di
questo sesso. E, se per caso una donna vuole passare per saggia,
ottiene solo di essere due volte folle, come se uno volesse, contro
ogni ragionevole proposito, portare un bue in palestra. Infatti
raddoppia il suo difetto chi, distorcendo la propria natura, assume
sembianza virtuosa. Come, secondo il proverbio greco, la scimmia
è sempre una scimmia, anche se si ammanta di porpora, così
la donna è sempre una donna, cioè folle, comunque
si mascheri.
Non però così
folle, voglio credere, da prendersela con me perchè la giudico
folle, io che sono folle, anzi la Follia in persona. Le donne, infatti,
se ponderassero bene la questione, anche questo dovrebbero considerare
come un dono della Follia: il fatto di essere, sotto molti aspetti,
più fortunate degli uomini. In primo luogo hanno il dono
della bellezza, che giustamente mettono al disopra di tutto, contando
su di essa per tiranneggiare gli stessi tiranni. Quanto all'uomo,
di dove gli viene l'aspetto rude, la pelle ruvida, la barba folta,
e un certo che di senile, se non dalla maledizione del senno? Le
donne, invece, con le guance sempre lisce, con la voce sempre sottile,
con la pelle morbida, danno quasi l'impressione d'una eterna giovinezza.
Ma che altro desiderano poi in questa vita, se non piacere agli
uomini quanto più è possibile? Non mirano forse a
questo, tante cure, belletti, bagni, acconciature, unguenti, profumi;
tante arti volte ad abbellire, dipingere, truccare il volto, gli
occhi, la pelle? C'è forse qualche altro motivo che le faccia
apprezzare dagli uomini più della follia? Che cosa mai non
concedono gli uomini alle donne? Ma in cambio di che, se non del
piacere? E il diletto da nient'altro viene se non dalla loro follia.
Che questo sia vero non si può negare solo che si pensi a
tutte le sciocchezze che un uomo dice quando parla con una donna,
a tutte le stupidaggini che fa ogni volta che si mette in testa
di ottenerne i favori. Ecco da che fonte sgorga il primo e principale
diletto della vita.
18. Ma ci sono uomini, specialmente
tra i vecchi, che alla donna preferiscono il bere; per loro il sommo
piacere sta nei simposi. Altri pensano che possa esservi un lauto
banchetto senza donne; però una cosa è certa, che
senza un pizzico di follia non può esservi banchetto ben
riuscito. A tal punto che, se non c'è già qualcuno
capace di far ridere con la sua follia, autentica o simulata, si
chiama un buffone a pagamento, o un allegro parassita, che, con
le sue comiche, ossia folli battute, dissipi il silenzio e la noia
del simposio. A che scopo infatti riempirsi il ventre di tanti dolciumi,
leccornie e ghiottonerie, se anche gli occhi, le orecchie e l'anima
intera, non si nutrissero di risa, di scherzi, di facezie? ma cibi
del genere posso ammannirli solo io. D'altra parte anche quei riti
conviviali, come sorteggiare il re del convito, giocare ai dadi,
invitare al brindisi, gareggiare intorno ad un tavolo a cantare
e bere a turno, passarsi il mirto cantando, ballare, far pantomime,
non sono stati inventati dai sette sapienti della Grecia ma da me,
per la felicità dell'umana specie.
Tutte le cose di questo genere
hanno un tratto comune: che quanto più partecipano della
follia tanto più rallegrano la vita dei mortali, che, se
fosse triste, neanche meriterebbe di essere chiamata vita. E triste
risulterà senz'altro, se non le toglierai di dosso l'innato
tedio con questo tipo di divertimenti.
19. Forse taluni trascureranno
anche questo genere di piacere e saranno paghi dell'amore e della
familiarità degli amici, affermando che l'amicizia vale più
di tutto: l'amicizia, un bene non meno necessario dell'aria, del
fuoco, dell'acqua; tanto soave che se togli l'amicizia togli il
sole; infine tanto nobile - ammesso che la cosa ci riguardi - che
gli stessi filosofi non esitano a ricordarla fra i beni fondamentali.
Ma che succede se dimostro che anche di questo bene così
grande sono io la poppa e la prora? Io lo dimostrerò non
col sofisma del coccodrillo, non coi soliti cornuti o con altre
simili dialettiche sottigliezze, ma alla buona, facendovi toccare
la cosa con mano.
Orbene, chiudere gli occhi,
ingannarsi, essere ciechi, illudersi a proposito dei difetti degli
amici, amarne e apprezzarne come qualità alcuni dei vizi
più evidenti, non è forse qualcosa di molto vicino
alla follia? C'è chi bacia il neo dell'amica, chi trova incantevole
il polipo di Agna; il padre dice del figlio strabico che ha il vezzo
di ammiccare. Tutto questo, io domando, che è, se non pura
follia? Ripetano a gran voce che è follia: eppure essa sola
è capace di promuovere e cementare le amicizie. Parlo dei
comuni mortali, nessuno dei quali nasce senza difetti: il migliore
è chi ne ha meno; quanto poi a quei famosi saggi che hanno
il piglio di Dèi, tra loro l'amicizia, o non nasce affatto,
o è qualcosa di cupo e scostante, limitata poi a pochissimi
(non oso dire che non include proprio nessuno), perchè la
maggior parte degli uomini ha un pizzico di follia, anzi non c'è
nessuno che, in un modo o in un altro, non abbia le sue stranezze,
e non c'è amicizia se non tra persone simili. Se, infatti,
tra questi uomini austeri si desse una volta uno scambievole affetto,
non sarebbe per nulla stabile e durerebbe ben poco, nascendo tra
uomini difficili e più oculati del necessario, capaci di
cogliere i difetti degli amici con l'occhio acuto dell'aquila e
del serpente di Epidauro. Quando però si tratta dei loro
difetti, come ci vedono poco! e come ignorano la parte della bisaccia
che portano dietro le spalle! Perciò, dato che la natura
dell'uomo è tale che nessuno è immune da gravi difetti
(aggiungi la grande varietà di caratteri e di studi, le tante
cadute, i tanti errori, i tanti casi della vita mortale), come potranno
questi Arghi gustare anche solo per un'ora le gioie dell'amicizia
se non interverrà quella che i Greci chiamano EUETHEIA, termine
felice da tradursi con follia, o con indulgente semplicità?
Del resto, non è forse del tutto cieco quel Cupido, che è
artefice e padre di ogni legame? E come il brutto gli appare bello,
così fa in modo che anche a ciascuno di voi sembri bello
ciò che gli è toccato in sorte, che il vecchio ami
la sua vecchia, e il ragazzo la sua ragazza. Sono cose che accadono
a ogni piè sospinto e che muovono il riso; eppure sono proprio
queste cose ridicole il fondamento di una società che vive
con gioia.
20. Quanto si è detto
dell'amicizia a maggior ragione vale per il matrimonio, che altro
non è se non un legame per la vita tra singoli individui.
Dio immortale, quanti divorzi, o fatti anche peggiori dei divorzi,
non si avrebbero dappertutto, se la domestica convivenza del marito
con la moglie non si rafforzasse nutrendosi di adulazioni, di scherzi,
d'indulgenza, di errori, di dissimulazioni, tutte cose che appartengono
al mio seguito. Quanto matrimoni ci sarebbero, se il fidanzato saggiamente
s'informasse dei passatempi a cui già molto prima delle nozze
si dedicava la sua verginella così delicata e pudica in apparenza.
E, a celebrazione avvenuta, quanti ne durerebbero, se tante imprese
delle mogli non rimanessero ignorate per la negligenza e la sciocchezza
dei mariti! E anche questo, a buon diritto, è da attribuirsi
alla Follia, a cui si deve se il marito ama la moglie e la moglie
il marito, se in casa regna la pace, se il vincolo dura.
Si ride del cornuto, del
cervo (e quanti altri nomi non gli si danno!), quando asciuga con
i baci le lacrime dell'adultera. Ma quanto meglio lasciarsi ingannare
così che rodersi di gelosia e volgere tutto in tragedia!
21. Insomma, senza di me
nessuna società, nessun legame potrebbe durare felicemente.
Il popolo si stancherebbe del principe, il servo del padrone, la
serva della padrona, il maestro dello scolaro, l'amico dell'amico,
la moglie del marito, il locatore del locatario, il compagno del
compagno, l'ospite dell'ospite, se volta a volta non s'ingannassero
a vicenda, ora adulandosi, ora facendo saggiamente finta di non
vedere, ora lusingandosi col miele della Follia. So che queste vi
sembrano enormità; ma ne sentirete di più belle.
22. Di grazia, chi odia se
stesso come potrà amare qualcuno? chi è interiormente
combattuto, potrà forse andare d'accordo con altri? potrà,
chi è sgradito e molesto a se stesso, riuscire gradevole
a un altro? Nessuno, credo, lo affermerebbe, se non fosse un pazzo
più pazzo della Follia stessa. Pertanto, se non ci fossi
più io, lungi dal sopportare il prossimo, ognuno, inviso
a se stesso, proverebbe disgusto di sè e delle sue cose.
La Natura, infatti, in molte cose matrigna piuttosto che madre,
ha posto nell'animo dei mortali, soprattutto se appena più
intelligenti, il seme di questo male: scontento di sè e ammirazione
per gli altri. Di qui il venire meno e l'estinguersi di tutte quelle
squisite doti che sono il profumo della vita. A che giova infatti
la bellezza, il massimo dono degli Dèi immortali, se deve
esser lasciata sfiorire? A che la giovinezza, se deve intristire
per il veleno di senili malinconie? Infine, in tutti i casi della
vita, come potrai agire in modo conveniente nei tuoi o negli altrui
confronti (agire come conviene non è solo la prima regola
dell'arte, ma di tutta la nostra condotta), se non ti sarà
propizia Filautìa, che a buon diritto tengo in conto di sorella,
tanto validamente mi presta il suo aiuto in ogni occasione? Se piaci
a te stesso, se ti ammiri, questo è proprio il colmo della
follia; ma d'altra parte, dispiacendo a te stesso, che cosa potresti
fare di bello, di gradevole, di nobile? Togli alla vita l'amor proprio
e subito la parola suonerà fredda sulle labbra dell'oratore,
il musicista non piacerà a nessuno con le sue melodie, l'attore
si farà fischiare con la sua mimica, il poeta e le sue muse
saranno irrisi, sarà tenuto a vile il pittore con la sua
arte, si ridurrà alla fame il medico con le sue medicine.
Alla fine invece di Nireo sembrerai Tersite, invece di Faone, Nestore,
invece di Minerva una scrofa, invece di un forbito oratore, uno
che non balbetta neanche una parola; invece di un distinto cittadino,
un rozzo contadino. Se vuoi poter essere raccomandato agli altri,
devi proprio cominciare col raccomandarti a te stesso; devi essere
il primo a lodarti, e non senza una punta di adulazione.
Infine, poichè la
felicità consiste soprattutto nel voler essere ciò
che si è, qui interviene col suo aiuto la mia Filautìa,
facendo in modo che nessuno sia scontento del proprio aspetto, carattere,
schiatta, posizione, educazione, Patria, tanto che nè un
irlandese si cambierebbe con un italiano, nè un tracio con
un ateniese, nè uno scita con un abitante delle Isole Fortunate.
O singolare bontà della natura che in tanta varietà
di cose, stabilì un regime di uguaglianza! Dove scarseggia
coi suoi doni, là, è solita aggiungere una dose maggiore
di amor proprio. Ma che sciocchezza ho detto! Proprio questo è
il più grande dei suoi doni.
23. Ora dovrei aggiungere
che nulla di grande si può intraprendere senza la mia spinta,
perchè è a me che si deve l'invenzione di ogni nobile
arte. Forse che non sia la guerra la fonte e il coronamento di ogni
celebrata impresa? E che c'è di più pazzesco dell'impegnarsi,
per non so quali cause, in un confronto da cui, immancabilmente,
ognuna delle due parti trae più danno che guadagno? Dei caduti,
poi, neanche si parla, quasi fossero gente di Megara. Quando le
schiere in armi si fronteggiano e le trombe intonano il loro rauco
suono, a che servono, di grazia, i sapienti esauriti dagli studi,
col loro sangue povero e privo di calore, e che a malapena tirano
il fiato? C'è bisogno di gente ben piantata; con moltissima
audacia e pochissimo cervello. A meno che non si preferisca arruolare
Demostene, tanto vile soldato quanto grande oratore, che, seguendo
il consiglio d'Archiloco, appena vide il nemico fuggì abbandonando
lo scudo.
La prudenza, obiettano, in
guerra ha grandissimo peso. Lo riconosco; ma lo ha in chi comanda;
e si tratta di prudenza militare, non filosofica; per il resto,
l'impresa tanto egregia della guerra è affidata a parassiti,
ruffiani, briganti, sicari, contadini, imbecilli, debitori e altri
rifiuti del genere; non a filosofi da tavolino.
24. Della cui totale inutilità
sul piano pratico è testimone lo stesso Socrate che l'oracolo
d'Apollo giudicò - con poco senno, del resto - il solo sapiente:
quando tentò d'impegnarsi in non so quale faccenda pubblica,
fu costretto a ritirarsi fra il generale dileggio. Anche se del
tutto sciocco non si dimostrò quando rifiutò il titolo
di sapiente che attribuì solo a Dio, e quando sostenne che
il saggio non deve occuparsi di politica; e meglio avrebbe fatto
a consigliare di tenersi lontani dalla sapienza, se si vuol vivere
da uomini.
D'altra parte, quando fu
processato, che cosa se non la sapienza lo costrinse a bere la cicuta?
Infatti mentre andava filosofando di idee e di nuvole, mentre misurava
il salto delle pulci, mentre ammirava la voce delle zanzare, non
imparava nulla di ciò che riguarda la vita di tutti i giorni.
In aiuto del maestro, sull'orlo di una condanna capitale, interviene
il discepolo Platone, difensore così egregio che, turbato
dal rumoreggiare della folla, a malapena riesce a pronunciare qualche
frase smozzicata. E che dire di Teofrasto? come avrebbe mai potuto
animare i soldati in guerra, lui che, levatosi a parlare, ammutolì
di colpo come se d'improvviso avesse visto un lupo? Isocrate, pavido
per natura, non osò mai aprire bocca. Marco Tullio, il padre
della romana eloquenza, abitualmente, preso da poco dignitoso tremore,
esordiva balbettando, come un ragazzino. Quintiliano vede in questo
la prova dell'oratore di valore, che misura le difficoltà;
ma non farebbe meglio a dire che la sapienza è un ostacolo
a condurre in porto le faccende pratiche? Che faranno costoro quando
si dovrà ricorrere alle armi, se si perdono d'animo così
quando si combatte semplicemente a parole?
Nonostante questo, a Dio
piacendo, si esalta il famoso detto di Platone, che fortunati saranno
gli Stati se a reggerli saranno chiamati i filosofi, o se i reggitori
si daranno alla filosofia. Se, invece, consulterai gli storici,
troverai che il concentrarsi del potere nelle mani di un filosofastro
o di un letterato è la peggiore sciagura che possa colpire
uno Stato. E mi pare lo attestino bene i due Catoni: uno dei quali
turbò la pace della repubblica romana con le sue pazze denunce;
l'altro, mentre difendeva con un eccesso di saggezza la libertà
del popolo romano, la mise del tutto a soqquadro. Aggiungi a questi
i Bruti, i Cassi, i Gracchi, e Cicerone stesso, che allo stato romano
fece tanto male quanto Demostene a quello ateniese. Quanto a Marco
Antonio, ammesso che fosse un buon imperatore (potrei contestarlo,
perchè, dedito come era alla filosofia, per questa stessa
fama si era fatto prendere a noia dai concittadini) ammesso tuttavia
che lo fosse, certamente, lasciando dietro di sè il figlio
che lasciò, danneggiò lo Stato più di quanto
non gli avesse giovato col suo governo. Questa categoria, infatti,
di uomini dediti allo studio della filosofia, di solito ha pochissima
fortuna in ogni cosa, ma soprattutto nei figli che mette al mondo;
penso sia la provvidenza della natura a volere impedire che questo
malanno della filosofia si diffonda più largamente fra gli
uomini. Così risulta che Cicerone ebbe un figlio degenere,
e che Socrate, il famoso filosofo, ebbe figli, com'è stato
scritto non del tutto a torto, "più simili alla madre
che al padre", e cioè stolti.
25. Comunque, se fossero
come asini davanti a una lira solo riguardo ai pubblici affari,
ci si potrebbe passare sopra; il guaio è che sono altrettanto
incapaci in ogni altra occasione della vita. Invita a pranzo un
sapiente: disturberà col suo cupo silenzio, o con le sue
noiose questioncelle. Invitalo alla danza: diresti che balla come
un cammello. Portalo ad uno spettacolo: basterà la sua espressione
a guastare il divertimento alla gente e, come il saggio Catone,
sarà costretto a lasciare il teatro perchè non può
spianare il cipiglio. Se per caso capiterà durante una conversazione,
sarà come il lupo della favola. Se c'è da fare un
acquisto, un contratto, insomma qualcuna delle cose indispensabili
alla vita di ogni giorno, questo sapiente ti sembrerà un
pezzo di legno, non un uomo. A tal punto è incapace di rendersi
utile a se stesso, alla patria, ai suoi, perchè inesperto
delle faccende usuali e perchè tanto lontano dal giudizio
corrente e dalle accettate consuetudini. Quindi, per forza, si fa
anche odiare, per questa sua grande diversità di vita e di
intendimenti. Tra i mortali, infatti, che cosa mai si fa che non
trabocchi di follia, e che non sia opera di folli in un mondo di
folli? Perciò, se qualcuno volesse opporsi da solo a tutti,
io gli consiglierei di ritirarsi, come Timone, in un deserto, per
godervi, da solo, la propria saggezza.
26. Ma, per tornare all'argomento
proposto, quale forza, se non l'adulazione, raggruppò nella
città quegli uomini primitivi, simili ai sassi e alle querce?
Questo solo vuole indicare la famosa cetra di Anfione e di Orfeo.
Cosa mai riportò alla concordia cittadina la plebe romana
che già stava per spingersi ad atti irreparabili? Forse un
discorso filosofico? Nemmeno per sogno! Al contrario, fu il ridicolo
e puerile apologo del ventre e delle altre membra. Altrettanto si
dica dell'analogo apologo di Temistocle, della volpe e del riccio.
E quale discorso di un sapiente avrebbe potuto raggiungere l'efficacia
della famosa cerva immaginata da Sertorio, o della trovata dei due
cani, dello spartano Licurgo, o dell'altra ridicola storia, sempre
di Sertorio, sul modo di strappare i peli dalla coda del cavallo?
Per non parlare di Minosse e di Numa: entrambi governarono la stolta
moltitudine con invenzioni favolose. E' con simili sciocchezze che
si fa presa su quella grossa e potente bestia che è il popolo.
27. Viceversa, quale città
ha mai fatto sue le leggi di Platone e di Aristotele, o i precetti
di Socrate?
Che cosa persuase i Deci
a votarsi spontaneamente agli Dèi Mani? Che cosa trascinò
nella voragine Quinto Curzio, se non la vanagloria, dolcissima sirena
(ma quanto esecrata dai sapienti!).
Che c'è infatti di
più sciocco, dicono, di un candidato che lusinga il popolo
in tono supplichevole, che compra i voti, che va in cerca degli
applausi di tanti stolti, che si compiace delle acclamazioni, che
si fa portare in giro in trionfo, come una statua da mostrare al
popolo, che fa collocare nel foro il proprio simulacro di bronzo?
Aggiungi la sfilza dei nomi e dei soprannomi, gli onori divini tributati
a un uomo insignificante, il fatto che si dà il caso di tiranni
scelleratissimi elevati con pubbliche cerimonie alla gloria dell'Olimpo.
Sono autentiche manifestazioni di follia, e per riderci sopra non
basterebbe un solo Democrito. Chi lo nega? Tuttavia, proprio di
qui sono nate le grandi imprese degli eroi, levate al cielo dall'opera
di tanti letterati. Questa follia genera le città; su di
essa poggiano i governi, le magistrature, la religione, le assemblee,
i tribunali. La vita umana non è altro che un gioco della
Follia.
28. Quanto poi alle arti,
cosa mai se non la sete di gloria ha suscitato nell'animo umano
la brama d'inventare e tramandare ai posteri tante discipline ritenute
nobili? Furono uomini davvero stoltissimi quelli che hanno creduto
valesse la pena di conquistare a prezzo di tante faticose veglie
quella fama di cui niente può essere più vano. Ma
intanto voi dovete alla Follia tante cose e così egregie
della vita, e, ciò che soprattutto conta, la follia altrui
fa la vostra cuccagna.
29. C'è, ora, qualcosa
di cui stupirsi se, dopo essermi attribuita la fortezza e l'operosità,
rivendicherò anche la saggezza? qualcuno potrebbe dire che
è come accoppiare l'acqua e il fuoco. Eppure credo che riuscirò
anche in questo purchè voi, come prima, mi prestiate benevola
attenzione. In primo luogo, se la saggezza si fonda sull'esperienza,
a chi meglio conviene fregiarsi dell'appellativo di saggio? Al sapiente
che, parte per modestia, parte per timidezza, nulla intraprende,
o al folle che nè il pudore, di cui è privo, nè
il pericolo, che non misura, distolgono da qualche cosa? Il sapiente
si rifugia nei libri degli antichi e ne trae solo sottigliezze verbali.
Il folle affronta da vicino le situazioni coi relativi rischi e
così acquista, se non erro, la saggezza. Cosa, questa, che
sembra avere visto, benchè cieco, Omero, quando dice: "Il
folle capisce i fatti". Sono due infatti i principali ostacoli
alla conoscenza delle cose: la vergogna che offusca l'animo, e la
paura che, alla vista del pericolo, distoglie dalle imprese. La
follia libera da entrambe. Non vergognarsi mai e osare tutto: pochissimi
sanno quale messi di vantaggi ne derivi.
Perchè, se preferiscono
attingere quella sapienza che consiste nel saper giudicare delle
cose, state a sentire, vi prego, quanto ne sono lontani coloro che
si spacciano per sapienti. In primo luogo, com'è noto, tutte
le cose umane, a guisa dei Sileni di Alcibiade, hanno due facce
affatto diverse. A tal segno che sulla faccia esteriore, come dicono,
vedi la morte, mentre, se guardi dentro, scopri la vita; e, viceversa,
al posto della vita scopri la morte, al posto del bello il brutto,
della ricchezza la miseria, dell'infamia la gloria, della dottrina
l'ignoranza, del vigore la debolezza, della generosità l'abiezione,
della letizia la malinconia, della prosperità la sventura,
dell'amicizia l'inimicizia, del salutare il nocivo: in breve, se
apri il Sileno, trovi di tutte le cose l'opposto. Se poi qualcuno
giudica troppo filosofico questo discorso, mi spiegherò,
come suol dirsi, più alla buona.
Chi negherà che un
re è ricco e potente? Eppure, se manca del tutto dei beni
dell'animo, se non è mai contento di nulla, è davvero
il più povero di tutti. Se poi il suo animo è una
sentina di vizi, è addirittura uno schiavo abietto. Lo stesso
ragionamento si potrebbe fare anche per gli altri. Ma accontentiamoci
dell'esempio proposto. A che scopo? domanderà qualcuno. State
a sentire dove voglio arrivare.
Se uno tentasse di strappare
la maschera agli attori che sulla scena rappresentano un dramma,
mostrando agli spettatori la loro autentica faccia, forse che costui
non rovinerebbe lo spettacolo meritando di esser preso da tutti
a sassate e cacciato dal teatro come un forsennato? Di colpo tutto
muterebbe aspetto: al posto di una donna un uomo; al posto di un
giovane, un vecchio; chi prima era un re, d'improvviso diventa uno
schiavo; chi era un Dio, ad un tratto appare un uomo da nulla. Dissipare
l'illusione significa togliere senso all'intero dramma. A tenere
avvinti gli sguardi degli spettatori è proprio la finzione,
il trucco. L'intera vita umana non è altro che uno spettacolo
in cui, chi con una maschera, chi con un'altra, ognuno recita la
propria parte finchè, ad un cenno del capocomico, abbandona
la scena. Costui, tuttavia, spesso lo fa recitare in parti diverse,
in modo che chi prima si presentava come un re ammantato di porpora,
compare poi nei cenci di un povero schiavo. Certo, sono tutte cose
immaginarie; ma la commedia umana non consente altro svolgimento.
A questo punto, se un sapiente
caduto dal cielo si levasse d'improvviso a gridare che il personaggio
a cui tutti guardano come a un Dio e a un potente, non è
neppure un uomo, perchè come le bestie si lascia dominare
dalle passioni, che spontaneamente asservito a padroni così
numerosi e turpi, è l'ultimo degli schiavi; e, se ad un altro
che piange il padre morto ordinasse di ridere perchè il padre,
finalmente, ha cominciato a vivere, dato che questa vita altro non
è che morte; e se chiamasse plebeo e bastardo un terzo che
mena vanto di una nobile nascita, ma che è ben lontano dalla
virtù, unica fonte di nobiltà: se allo stesso modo
parlasse di tutti gli altri, non agirebbe costui proprio in modo
da sembrare a tutti pazzo da legare? Nulla di più stolto
di una saggezza intempestiva; nulla di più fuori posto del
buon senso alla rovescia. Agisce appunto contro il buon senso chi
non sa adattarsi al presente, chi non adotta gli usi correnti, e
dimentica persino la regola conviviale: o bevi o te ne vai, e vorrebbe
che una commedia non fosse più una commedia. Invece, per
un mortale, è vera saggezza non voler essere più saggio
di quanto gli sia concesso in sorte, fare buon viso all'andazzo
generale e partecipare di buon grado alle umane debolezze. Ma, dicono,
proprio questo è follia. Non lo contesterò, purchè
riconoscano in cambio che questo è recitare la commedia della
vita.
30. Quanto al resto, Dèi
immortali, parlerò o tacerò? E perchè mai dovrei
tacere cose più vere della verità? Ma forse, in così
grave frangente, meglio sarebbe chiamare in aiuto dall'Elicona le
Muse che i poeti sono soliti invocare anche troppo spesso per vere
sciocchezze. Assistetemi dunque per un poco, figlie di Giove, finchè
non dimostri che nessuno senza la guida della follia può
accedere alla sapienza, a quella che chiamano la rocca della felicità.
In primo luogo, è
pacifico che tutte le passioni rientrano nella sfera della follia:
ciò che distingue il savio dal pazzo è che questi
si fa guidare dalle passioni, mentre il primo ha per guida la ragione.
Perciò gli stoici spogliano il sapiente di tutte le passioni
come fossero delle malattie. Tuttavia questi elementi emotivi, non
solo assolvono la funzione di guide per chi si affretta verso il
porto della sapienza, ma nell'esercizio della virtù vengono
sempre in aiuto spronando e stimolando, come forze che esortano
al bene. Anche se qui fieramente leva la sua protesta Seneca, col
suo stoicismo integrale, negando al sapiente ogni passione. Ma così
facendo distrugge anche l'uomo e crea al suo posto un Dio di nuovo
genere, che non è mai esistito e non esisterà mai;
anzi, per parlare ancora più chiaro, scolpisce la statua
di un uomo di marmo, privo d'intelligenza e di qualunque sentimento
umano. Perciò, se lo desiderano, si godano pure il loro saggio,
che potranno amare senza rivali, e dimorino con lui nella Repubblica
di Platone, o, se preferiscono, nel mondo delle idee, o nei giardini
di Tantalo.
Chi, infatti, non sfuggirà
con orrore come spettro mostruoso un uomo così fatto, sordo
ad ogni naturale richiamo, incapace d'amore o di pietà, come
"una dura selce o una rupe Marpesia"? Un uomo cui non
sfugge nulla, che non sbaglia mai, ma che con l'occhio acuto di
Linceo tutto vede, tutto pesa con assoluta precisione, nulla perdona;
solo di sè contento, lui solo ricco, lui solo sano, lui solo
re, lui solo libero. Per dirla in breve, lui solo tutto (e solo
a suo giudizio); senza amici, pronto a mandare all'inferno gli stessi
Dèi, e che condanna come insensato e risibile tutto ciò
che si fa nella vita. Eppure quel perfetto sapiente è proprio
un animale fatto così. Ma, di grazia, se si dovesse decidere
con i voti, quale città lo vorrebbe come magistrato, quale
esercito lo designerebbe come capo? Quale donna vorrebbe o sopporterebbe
un simile marito, quale anfitrione un simile convitato, quale servo
un padrone con questi costumi? Chi non preferirebbe un uomo qualunque,
uno della folla dei pazzi più segnalati, che, pazzo com'è,
possa comandare o obbedire ad altri pazzi, attirando la simpatia
dei suoi simili, che poi sono tanti? Gentile con la moglie, gradito
agli amici, buon commensale; uno con cui si possa convivere, che,
infine, non ritenga estraneo a sè niente di ciò che
è umano? Ma ormai del sapiente ne ho abbastanza. Perciò
torniamo a parlare degli altri vantaggi che offro.
31. Supponiamo che potendo
spaziare da una specola sublime con lo sguardo tutt'attorno - come,
secondo i poeti, fa Giove - uno veda quante avversità minaccino
la vita, quanto infelice e miserabile sia la nascita, quanto faticosa
l'educazione, e tutte le offese cui va incontro la fanciullezza,
tutti gli affanni della gioventù, e com'è pesante
la vecchiaia, come amara la fatale morte; tutta la schiera delle
malattie, dei vari accidenti, l'incalzare delle contrarietà:
nulla mai che sia immune da un amaro veleno; per non dire di quei
mali che l'uomo subisce dall'uomo, come la povertà, la prigionia,
l'infamia, la vergogna, la tortura, le insidie, il tradimento, le
ingiurie, i processi, le frodi. Ma dire tutto è come mettersi
a contare i granelli di sabbia. Certo non spetta a me, dire qui
per quali colpe gli uomini abbiano meritato questa sorte, o quale
Dio irato li abbia costretti a nascere tanto infelici. Chi rifletta
a tutto questo non sarà forse portato ad approvare l'esempio,
pur così penoso, delle vergini di Mileto? E quali sono soprattutto
gli uomini che, per disgusto della vita, si sono dati la morte?
Non sono forse quelli che alla sapienza si erano accostati di più?
Tralasciando Diogene, Senocrate, i Catoni, i Cassi, i Bruti, prendiamo
il famoso Chirone che, potendo diventare immortale, preferì
cercare spontaneamente la morte. Credo vi sia chiaro che cosa accadrebbe
se la sapienza si diffondesse; sarebbe necessario altro fango e
un secondo Prometeo capace di plasmare altri uomini. Io, invece,
puntando ora sull'ignoranza e ora sulla spensieratezza, a volte
facendo dimenticare i malanni, a volte suscitando speranze di cose
favorevoli, esaltando i piaceri con qualche stilla di miele, in
così grandi malanni, sono così soccorrevole che nessuno
vuole lasciare la vita, neppure quando il filo delle Parche è
già esaurito e la vita stessa viene meno. Anzi chi ha minori
motivi di restare in vita, tanto più ama vivere, tanto è
lontano dall'essere comunque sfiorato dal tedio della vita.
Si deve certo a me, se si
vedono in giro tanti vecchi annosi quanto Nestore, vecchi che non
hanno più neppure volto d'uomo, balbuzienti, svaniti, sdentati,
canuti, calvi, o, per dirla con Aristofane, lerci, curvi, miseri,
rugosi, senza capelli, senza denti, lascivi, ma a tal segno amanti
della vita e tanto inclini a fare i giovinetti, che ora si tingono
i capelli, ora nascondono la calvizie con una parrucca e ora si
servono di denti presi a prestito magari da un porco; mentre c'è
tra loro chi si strugge d'amore per una fanciulla e, in fatto di
amorose sciocchezze, dà punti anche a un ragazzino. Che vecchi
rammolliti, già pronti per il cataletto, sposino giovinette,
anche se prive di dote e destinate a fare la gioia di altri, è
cosa ormai così frequente da costituire quasi motivo di vanto.
Ma nulla c'è di più
spassoso di certe vecchie praticamente già morte tanto sono
decrepite, a tal punto cadaveriche da sembrare reduci dagl'inferi,
ma che hanno sempre sulle labbra il ritornello: "la vita è
bella"; fanno ancora le vezzose; mandano sentore di capra -
come dicono i Greci; conquistano a caro prezzo un qualche Faone,
s'imbellettano di continuo, stanno sempre allo specchio, si sfoltiscono
i peli del pube, ostentano le vecchie mammelle avvizzite, sollecitano
con tremuli mugolii il desiderio che vien meno, bevono, si inseriscono
nelle danze delle fanciulle, scrivono bigliettini amorosi. Sono
cose di cui tutti ridono come di indubbie follie; ed hanno ragione:
ma loro, le vecchie, sono tanto contente di sè, nuotano in
un mare di delizie, gustano dolcezze senza fine, sono felici: e
tutto per merito mio. Vorrei che chi giudica queste cose degne d'irrisione
riflettesse un po': è meglio trascorrere nella follia una
vita colma di dolcezza, o andare cercando, come suol dirsi, una
trave a cui impiccarsi?
Che la loro condotta sia
giudicata comunemente vergognosa, ai miei pazzi non importa proprio
nulla: nemmeno se ne accorgono, o, se ne hanno sentore, non ne tengono
nessun conto. Prendersi un sasso in testa, questo sì che
fa male. La vergogna, l'infamia, il disonore, le offese, nuocciono
nella misura in cui fanno soffrire. Per chi non se la prende, non
sono neppure un male. Che t'importa se tutti ti fischiano, se tu
ti applaudi? Che questo ti sia possibile lo devi alla sola Follia.
32. Mi pare di sentire protestare
i filosofi: l'infelicità, dicono, è proprio qui, nell'essere
prigionieri della Follia, sbagliare, vivere nell'inganno, nell'ignoranza.
Ma essere uomo è appunto questo. Nè riesco a capire
perchè parlino d'infelicità: così siete nati,
educati, formati: questa è la sorte comune a tutti. Nessuno
è infelice quand'è in armonia con la propria natura,
a meno di compiangere l'uomo perchè non può volare
con gli uccelli, nè camminare a quattro zampe con gli altri
mammiferi, o perchè, a differenza dei tori, non è
armato di corna. Da tal punto di vista chiameremo infelice anche
un bellissimo cavallo perchè non sa di grammatica e non mangia
dolciumi, infelice il toro in quanto negato agli esercizi della
palestra. In realtà, come non è infelice il cavallo
che ignora la grammatica, così non è infelice l'uomo
per la sua follia, che è conforme alla sua natura.
Ma ecco che quegli esperti
del ragionamento tortuoso tornano alla carica. E' dono peculiare
dell'uomo, dicono, la conoscenza scientifica, di cui si serve per
compensare con l'ingegno ciò che la natura gli ha negato.
Come se fosse verosimile che la natura, così sollecita nei
confronti delle zanzare e perfino delle erbette e dei fiorellini,
avesse tirato via solo nella creazione dell'uomo, rendendogli necessarie
quelle scienze che Theuth, col suo genio ostile al genere umano,
inventò per nostra somma iattura: tanto inadatte a renderci
felici che anzi contrastano col loro presunto fine, come con eleganza
sostiene in Platone un re molto saggio a proposito dell'invenzione
dell'alfabeto. Le scienze dunque sono penetrate fra gli uomini,
insieme alle altre calamità della vita mortale, per opera
di coloro da cui partono tutti i malanni, i demoni che ne hanno
anche derivato il nome, in greco DAEMONES, ossia "coloro che
sanno". La gente semplice dell'età dell'oro, del tutto
priva di dottrina, viveva sotto l'unica guida della natura e dell'istinto.
Che bisogno c'era della grammatica, quando tutti parlavano la stessa
lingua e niente altro si chiedeva se non di capirsi l'un l'altro?
A che la dialettica, se non c'era contrasto di opposte posizioni?
A che la retorica, se nessuno intentava cause al prossimo? E che
bisogno c'era della giurisprudenza, se non c'erano quei cattivi
costumi che, senza dubbio, hanno fatto nascere le buone leggi? Erano
troppo religiosi per scrutare con empia curiosità i misteri
della natura, la grandezza, i moti, gl'influssi delle stelle, le
cause riposte delle cose, giudicando vietato ai mortali il tentativo
di conoscere più di quanto era loro concesso. Lo stolto desiderio
di andare a cercare cosa ci fosse di là dal cielo non passava
neppure per la mente. Col graduale esaurirsi dell'età dell'oro,
dapprima, come ho detto, dai demoni del male furono inventate le
scienze, ma poche, e limitate a pochi. Poi, i Caldei con la loro
superstizione, e quei perdigiorno dei Greci coi loro interessi svagati,
moltiplicarono a dismisura queste autentiche torture della mente.
Con la sola grammatica ce ne sarebbe già di troppo per il
tormento di una vita intera.
33. Tuttavia tra queste scienze
le più pregiate sono le più vicine al senso comune,
cioè alla Follia. I teologi fanno la fame, i fisici soffrono
il freddo, gli astrologi sono derisi, i dialettici non contano nulla,
mentre un solo medico vale quanto molti uomini. In questa professione
quanto più uno è ignorante, avventato, leggero, tanto
più è considerato dagli stessi prìncipi con
tanto di corona in testa. La medicina, infatti, specialmente come
viene esercitata oggi dai più, si riduce, come la retorica,
a una forma di adulazione. Il secondo posto, con un brevissimo stacco,
spetta ai legulei - e starei per dire il primo; la loro professione,
per non esprimere pareri personali, è irrisa per lo più
dai filosofi, fra il generale consenso, come un'arte da asini. Tuttavia
gli affari, dai più grandi ai più piccoli, sono a
discrezione di questi asini. I loro latifondi si estendono, mentre
il teologo, dopo essersi documentato su tutti gli aspetti della
divinità, rosicchia lupini, impegnato in una guerra continua
con cimici e pidocchi.
Ma, se le arti più
fortunate sono quelle più affini alla Follia, più
fortunati fra tutti sono coloro che riescono a tenersi lontani da
qualunque disciplina per seguire la sola guida della natura che
in nessuna parte è manchevole, a meno che non pretendiamo
di oltrepassare i confini della nostra sorte mortale. La natura
odia gli artifici: fortunato chi è rimasto immune dalla contaminazione
delle arti.
34. Orsù, non vedete
che fra le varie specie animali se la passano meglio di tutte proprio
le più lontane dalle arti, quelle che hanno per unica maestra
e guida la natura? che c'è di più felice o mirabile
delle api? E dire che non hanno neppure tutti i sensi. Come potrebbe
un architetto realizzare qualcosa di simile alle loro costruzioni?
quale filosofo mai fondò una Repubblica come la loro? Il
cavallo, invece, poichè è simile all'uomo dal punto
di vista dei sensi ed è diventato suo compagno, è
anche partecipe delle umane calamità. Non di rado, vergognandosi
di perdere in gara, si sfianca nella corsa; in guerra, assetato
di vittoria, viene colpito e morde la polvere insieme al cavaliere.
Per non parlare del morso, degli sproni aguzzi, della stalla dove
è quasi prigioniero, del frustino, del bastone, delle redini,
del cavaliere, per dirla in breve, di tutta la tragica schiavitù
a cui si è votato spontaneamente nel tentativo di vendicarsi
a ogni costo del nemico emulando gli eroi. Quanto più invidiabile
la condizione delle mosche e degli uccellini, che vivono alla giornata
obbedendo solo al naturale istinto, sempre che lo consentano le
insidie degli uomini! Gli uccelli, infatti, chiusi in gabbia e ammaestrati
a imitare la voce umana, quanto si allontanano dal primitivo splendore!
A tal segno, sotto tutti i rispetti, il prodotto di natura è
migliore di quello che l'arte ha adulterato.
Perciò non loderò
mai abbastanza il gallo in cui si reincarnò Pitagora che,
essendo stato tutto, filosofo, uomo, donna, re, principe, privato
cittadino, pesce, cavallo, rana e, credo, anche spugna, nessun animale,
tuttavia, giudicò più disgraziato dell'uomo, perchè,
mentre tutti gli altri sono contenti dei loro limiti naturali, soltanto
l'uomo tenta di oltrepassare i confini della sua condizione.
35. E tra gli uomini, sotto
molti punti di vista, antepone i semplici ai dotti e ai grandi.
Molto più saggio di Ulisse, simbolo della scaltrezza, Grillo
che preferì di grugnire in un porcile piuttosto che andare
con lui incontro a tante calamità. Mi pare la pensi così
anche Omero, padre delle favole, che, mentre di continuo dice gli
uomini miseri e travagliati, e a più riprese chiama infelice
Ulisse con la sua proverbiale avvedutezza, non usa mai questo termine
parlando di Paride, o di Aiace, o di Achille. Perchè mai?
Soltanto perchè, quell'astuto inventore di trucchi agiva
solo sotto la spinta di Pallade, e, quanto mai sordo a ogni richiamo
della natura, era tutto cervello.
Perciò i più
lontani dalla felicità sono tra i mortali quelli che aspirano
alla sapienza, doppiamente stolti perchè, dimentichi della
loro condizione di uomini, si atteggiano a Dèi immortali
e, a somiglianza dei giganti, dichiarano guerra alla natura valendosi
di ordigni costruiti dalla loro perizia; i meno infelici, invece,
sembrano quelli che restano più vicini all'istinto e alla
stupidità dei bruti, nè tentano mai di oltrepassare
le capacità dell'uomo. Proverò anche a dimostrarlo,
e non con gli entimèmi degli stoici, ma con qualche esempio
alla portata di tutti. Per gli Dèi immortali, vi è
forse al mondo qualcosa di più felice di quella specie di
uomini chiamati volgarmente scimuniti, stolti, fatui, sciocchi?
appellativi, a mio parere, onorevolissimi. Dirò anzi una
cosa che, se a prima vista può sembrare una sciocchezza ed
un'assurdità, in fondo è di una verità indiscutibile.
Loro, innanzitutto, non hanno
paura della morte, male, per Giove, non trascurabile. Non li tormentano
rimorsi di coscienza; non li turbano le storie degli spiriti dei
defunti; non hanno paura delle apparizioni; non si crucciano per
il timore di mali incombenti; non entrano in ansia nella speranza
di beni futuri. Insomma, non sono in balìa dei mille affanni
a cui è esposta la nostra vita. Ignorano la vergogna, il
timore, l'ambizione, l'invidia, l'amore. Infine, chi più
si avvicina alla stupidità dei bruti - ne sono garanti i
teologi - è anche immune dal peccato. Ed ora, mio sciocchissimo
saggio, vorrei che tu mi esternassi tutti gli affanni che notte
e giorno tormentano il tuo animo e facessi un bel mucchio di tutti
i tuoi guai; alla fine capiresti quanto gravi mali ho risparmiato
ai miei folli. Aggiungi che, non solo vivono in perpetua letizia,
scherzando, canterellando, ridendo, ma offrono anche a tutti gli
altri, dovunque vadano, motivi di piacere, scherzo, divertimento
e riso, come se la benevolenza divina proprio a questo li avesse
votati: a rallegrare la tristezza della vita umana. Perciò,
mentre gli uomini provano, caso per caso, sentimenti diversi verso
i loro simili, nei confronti di questi pazzi nutrono senza eccezione
sentimenti amichevoli: li vanno a cercare, li nutrono, li stringono
in una sorta di caldo abbraccio e, all'occorrenza, li soccorrono,
non tenendo in nessun conto quanto possono dire o fare. Nessuno
desidera fargli del male. Persino le bestie feroci li risparmiano,
istintivamente consapevoli della loro innocenza. Infatti sono davvero
sacri agli Dèi, e a me in particolare. Perciò, a buon
diritto, sono da tutti onorati.
36. Grandi re, tanto se ne
dilettano, che alcuni di loro, nemmeno per un'ora, possono farne
a meno nè a tavola nè a passeggio. Non di poco preferiscono
questi buffoni agli austeri filosofi, che tuttavia sono soliti mantenere
per ragioni di prestigio. Perchè poi li preferiscano, non
mi sembra un mistero, nè deve destare stupore; quei saggi,
per i prìncipi, sono solo apportatori di tristezza; talora
fidando nella loro dottrina, non si peritano di sfiorare quelle
orecchie delicate con qualche pungente verità. I buffoni,
invece, offrono ai prìncipi la sola cosa che questi desiderano
con tutta l'anima: delizie come passatempo, scherzi, risate, divertimenti.
E non dimenticate anche questa non trascurabile dote dei folli:
solo loro sono schietti e veritieri.
E che c'è mai di più
lodevole della verità? Anche se in Platone un detto d'Alcibiade
attribuisce la verità al vino e ai fanciulli, si tratta tuttavia
di un elogio che, in assoluto, spetta soprattutto a me. Ne fa fede
Euripide che a me si riferisce col celebre detto: "Il folle
dice cose folli". Il folle porta scritto in faccia, e traduce
in parole, tutto quanto ha nel cuore. I saggi, invece, sempre secondo
Euripide, hanno due linguaggi: quello della verità e quello
dell'opportunismo. E' loro caratteristica mutare il nero in bianco,
spirando dalla medesima bocca ora il freddo ora il caldo, avendo
in fondo al cuore tutt'altro da quello che dicono nei loro artefatti
discorsi. Nella loro fortuna i prìncipi a me sembrano sotto
questo rispetto molto sfortunati: non hanno nessuno che dica loro
la verità, e sono costretti ad avere come amici degli adulatori.
Ma, si potrebbe osservare,
le orecchie dei prìncipi detestano la verità e proprio
per questo rifuggono dai saggi, nel timore che qualcuno di lingua
più sciolta osi dire cose vere piuttosto che gradevoli. Così
è: i re non amano la verità. Tuttavia proprio questo
si volge mirabilmente in vantaggio per i miei folli: da loro si
ascoltano con piacere, non solo la verità, ma anche indubbie
insolenze, a tal punto che, la stessa cosa, detta da un sapiente,
gli frutterebbe la morte, detta da un buffone diverte il signore
oltre ogni dire. La verità, infatti, ha un non so quale schietta
capacità di piacere, purchè non si accompagni all'intenzione
di offendere: ma questo è un dono che gli Dèi hanno
elargito ai soli folli.
Sono press'a poco medesime
le ragioni per cui le donne, più inclini per natura al divertimento
e alle frivolezze, si trovano di solito tanto bene con un simile
genere di uomini. Perciò, qualunque cosa costoro facciano
- anche se a volte sono cose fin troppo serie - le donne, tuttavia,
le volgono in scherzo e gioco, abili come sono nel mascherare ogni
loro trascorso.
37. Ma ora torniamo alla
felicità dei folli. Trascorsa la vita in grande letizia,
senza nè il timore nè il senso della morte, se ne
vanno diritti ai campi Elisi, per dilettare anche lì, coi
loro scherzi, il riposo delle anime pie.
Paragoniamo quindi la condizione
del saggio con quella di questo buffone. Immagina, per contrapporlo
a lui, un modello di sapienza: un uomo che abbia consumato tutta
la fanciullezza e l'adolescenza a istruirsi in mille modi, perdendo
la parte migliore della propria vita in veglie senza fine, in affanni
e fatiche; che nemmeno in tutto il resto della propria vita abbia
mai gustato un istante di piacere; sempre parco, povero, triste,
austero, inflessibile con se stesso, fastidioso e inviso agli altri;
pallido, macilento, cagionevole; invecchiato e incanutito prima
del tempo, colto da morte prematura, anche se nulla importa, dopo
tutto, quando muore un uomo così, che non è mai vissuto.
Ecco l'immagine perfetta del sapiente.
38. A questo punto, sento
che le rane del Portico si rimettono a gracidare contro di me. "Niente,
dicono, è più miserevole della demenza. Ma una eminente
follia è molto vicina alla demenza, o è demenza essa
stessa. Che cosa infatti è la demenza, se non l'uscire di
senno? e costoro ne sono usciti del tutto. "Orsù, vediamo
di confutare con l'aiuto delle Muse anche questo sillogismo".
Certo il loro ragionamento è sottile, ma, come il Socrate
platonico, procedendo per divisione, di una Venere e di un Cupido
ne faceva due, così anche i nostri dialettici, se volevano
apparire in senno, dovevano distinguere dissennatezza da dissennatezza.
Infatti non ogni follia è fonte di guai. Altrimenti Orazio
non si sarebbe chiesto: "Si prende forse gioco di me un'amabile
follia?", nè Platone avrebbe collocato il delirio dei
poeti, dei vati e degli amanti tra i massimi doni della vita; nè
la Sibilla avrebbe chiamato folle l'impresa di Enea.
In verità ci sono
due specie di follia. Una scaturisce dagli inferi tutte le volte
che le crudeli dee della vendetta, scatenando i loro serpenti, suscitano
nei cuori dei mortali ardore di guerra, o insaziabile sete di oro,
o amore turpe e scellerato, parricidio, incesto, sacrilegio, e altri
consimili orrori; oppure quando travagliano con le furie e le faci
tremende, un animo conscio dei propri delitti. L'altra, non ha nulla
in comune con questa; nasce da me e tutti la desiderano. Si manifesta
ogni volta che una dolce illusione libera l'animo dall'ansia e lo
colma, insieme, di mille sensazioni piacevoli. Proprio questa illusione
Cicerone, scrivendo ad Attico, augura a se stesso come un gran dono
degli Dèi, per potersi liberare dall'oppressione dei gravi
mali incombenti. Nè aveva torto quell'argivo che era pazzo
al punto da sedere da solo in teatro per giornate intere, ridendo,
applaudendo, godendosela, perchè credeva vi si rappresentassero
tragedie bellissime, mentre non si rappresentava proprio nulla.
Eppure, in tutte le altre faccende della vita, era perfettamente
normale: cordiale con gli amici, "gentile con la moglie, capace
di perdonare ai servi e di non dare in escandescenze se il sigillo
rotto denunciava la bottiglia aperta". Guarito dalle cure dei
familiari che gli somministrarono le medicine del caso, tornato
del tutto in sè, così si lamentava con gli amici:
"Per Polluce! m'avete ammazzato, amici miei, e non salvato,
privandomi del piacere e togliendomi con la forza quella mia così
dolce illusione".
Aveva ragione: erano loro
che sbagliavano e che, più di lui, avevano bisogno dell'elleboro,
loro che credevano di dover estirpare con le medicine, quasi fosse
un malanno, una così felice e piacevole follia.
Tuttavia non ho ancora accertato
se qualunque errore del senso o della mente meriti il nome di follia.
Se uno che ci vede poco scambia un mulo per un asino, se un altro
ammira come un monumento di dottrina una rozza poesia, non si può
senz'altro chiamarlo pazzo. Ma se uno sbaglia, non solo col senso,
ma anche col giudizio della mente, e questo gli accade sempre e
in proporzioni insolite, di lui, sì, diremo che ha un ramo
di pazzia; come chi, sentendo un asino ragliare, credesse di ascoltare
un meraviglioso concerto, o chi, povero e di umili origini, credesse
di essere Creso, re di Lidia. Ma quando questa specie di follia,
come di solito accade, assume aspetti piacevoli, è di non
piccolo diletto, sia per coloro che ne sono posseduti, sia per quelli
che stanno a vedere senza esserne colpiti. Si tratta, si badi, di
un'affezione molto diffusa; più di quanto di solito si crede.
Il pazzo ride del pazzo, e a vicenda si offrono diletto. E non di
rado vi accadrà di vedere che, di due pazzi, è il
più pazzo quello che più si prende gioco dell'altro.
39. Eppure, ve lo assicura
la Follia in persona, uno è tanto più felice quanto
più la sua follia è multiforme, purchè si mantenga
entro il genere a me peculiare: un genere così diffuso che
non so se fra tutti gli uomini se ne possa trovare uno solo che
sia costantemente saggio, e che sia del tutto immune da una qualche
forma di pazzia. La differenza è tutta qui: chi vedendo una
zucca la scambia per la moglie, viene chiamato pazzo perchè
la cosa succede a pochissimi. Chi invece, avendo la moglie in comune
con molti, giura che è più virtuosa di Penelope, e,
felice del suo errore, è orgoglioso di sè, nessuno
lo chiama pazzo, perchè la cosa accade spesso e dovunque.
Appartengono alla confraternita
anche coloro che disprezzano tutto in confronto ad una partita di
caccia, e vanno dicendo di provare un incredibile piacere tutte
le volte che sentono il suono cupo del corno e l'abbaiare dei cani.
Credo che anche gli escrementi dei cani, quando li annusano, mandino
per loro profumo di cinnamomo. E quale dolcezza squartare la selvaggina!
L'umile plebe può squartare tori e castrati, ma sarebbe un
delitto farlo con un capo di selvaggina: questa è prerogativa
di nobili. A capo scoperto sta il nobile, piegati i ginocchi, col
coltello destinato allo scopo (è vietato servirsi di uno
strumento qualunque), con gesti rituali, in pio raccoglimento, taglia
determinate membra in un determinato ordine. Una folla silenziosa
lo circonda, ammirata come se assistesse a non so quale nuovo rito,
mentre si tratta di uno spettacolo visto e rivisto. Se poi uno ha
la fortuna d'assaggiare un bocconcino della preda, crede di avanzare
non poco in nobiltà. Costoro, cacciando e cibandosi in continuazione
di selvaggina, mentre ottengono solamente di trasformarsi press'a
poco in fiere, si illudono invece di menar vita da re.
Molto simili sono quanti,
in preda alla frenesia del costruire, senza posa trasformano il
quadrato in rotondo, o il rotondo in quadrato. Procedono ignari
di ogni limite e misura finchè, ridotti in estrema povertà,
non hanno più nè tetto nè cibo. Ma che gli
importa del dopo? Intanto, per alcuni anni, sono stati immensamente
felici.
Molto vicini a costoro, mi
pare, sono quelli che con arti nuove e arcane, tentano di trasformare
la natura degli elementi e cercano per terra e per mare la quinta
essenza. Si nutrono di una speranza così dolce da non tirarsi
mai indietro di fronte a spese o fatiche, e con mirabile spirito
inventivo ne pensano sempre qualcuna per ingannarsi una volta di
più e per rivestire l'inganno di liete apparenze, finchè,
dato fondo a tutto il loro, non possono costruire più niente,
nemmeno un fornello. Non per questo, tuttavia, smettono di sognare
i loro bei sogni, ma spingono con tutte le loro forze anche gli
altri verso la medesima felicità. E quando l'ultima speranza
li ha abbandonati, resta tuttavia, a consolarli pienamente, un detto:
le grandi cose basta averle volute. Accusano allora la brevità
della vita, inadeguata alla grandezza dell'impresa.
Sono in dubbio se annoverare
nella nostra congrega i giocatori. Tuttavia è decisamente
uno spettacolo di spassosa follia vedere a volte gente così
schiava del gioco da sentirsi venire le palpitazioni appena giunge
al loro orecchio il rumore di dadi. Quando poi, obbedendo al costante
stimolo della speranza di vincere, vedono naufragare tutta la loro
fortuna, infranta contro lo scoglio del gioco, ben più insidioso
del Capo Malea, appena in salvo, nudi di tutto, per non farsi la
fama di uomini poco seri, defraudano chiunque, piuttosto che chi
nel gioco li ha vinti. E che dire di quando, ormai vecchi, con la
vista che vacilla, ricorrendo alle lenti, continuano a giocare?
E quando infine la meritata gotta impedisce l'uso delle mani, arrivano
a pagare un sostituto che getti sulla tavola, per loro, i dadi.
Gran bella cosa sarebbe il gioco, se il più delle volte non
volgesse in passione rabbiosa; ma qui siamo ormai nel regno delle
Furie, non nel mio.
40. E' senza dubbio della
mia pasta, invece, la schiera di quegli uomini che si divertono
ad ascoltare o narrare storie di miracoli o di prodigi fantastici
e non si stancano mai di ascoltare favole in cui si parla di eventi
portentosi, di spettri, di fantasmi, di larve, degl'inferi, o di
altre innumerevoli cose del genere. Quanto più la favola
si scosta dal vero, tanto più volentieri ci credono, tanto
più voluttuosamente le loro orecchie ne sono solleticate.
Di qui, non solo un apprezzabile passatempo contro la noia, ma anche
una fonte di guadagno, specialmente per i sacerdoti ed i predicatori.
Sono della stessa razza quanti
nutrono la folle ma piacevole convinzione di non essere esposti
a morire in giornata, se hanno visto il simulacro ligneo o l'immagine
dipinta di un gigantesco san Cristoforo (il nuovo Polifemo); o credono
di tornare sani e salvi dalla battaglia, se hanno rivolto le debite
preghiere alla statua di santa Barbara; o di arricchirsi in breve
rendendo omaggio a sant'Erasmo in certi giorni, con speciali moccoli
e determinate formulette. In san Giorgio hanno scoperto una specie
di Ercole e hanno anche un secondo Ippolito. Quasi adorano il suo
cavallo dopo averlo adornato con la massima devozione di falere
e di borchie, nè risparmiano offerte di ogni sorta per accaparrarsi
la benevolenza del santo; giurare per il suo elmo di bronzo, secondo
loro, è proprio degno di un re.
Che dire poi di quelli che,
nella dolcissima illusione di immaginarie indulgenze accordate ai
loro peccati, computano quasi con l'orologio alla mano il periodo
da passare in purgatorio, numerando secoli, anni, mesi, giorni,
ore, secondo una sorta di tavola matematica sicura al cento per
cento. O di quelli che fidando in segni magici o in giaculatorie
inventate da qualche pio ciurmadore, o per naturale disposizione,
o a scopo di lucro, non pongono limiti alle loro speranze: ricchezze,
onori, piaceri, abbondanza di tutto, una salute costantemente ottima,
una lunga vita, una vecchiaia vegeta, e, alla fine, nel regno dei
cieli, un seggio proprio accanto a Cristo. Questo, però,
senza fretta, per carità; ben vengano le delizie dei beati,
ma quando, con disappunto, dovranno lasciare i piaceri della vita
a cui sono abbarbicati con le unghie e coi denti.
Immagina un negoziante, ma
anche un soldato, un giudice: rinunciando a una sola monetina dopo
tante ruberie, crede di avere lavato una volta per tutte il fango
di un'intera vita, un'autentica palude di Lerna, e ritiene che tanti
spergiuri, tanta libidine, tante ubriacature, tante risse, tante
stragi, tante imposture, tante perfidie, tanti tradimenti, siano
riscattati come in base ad un regolare patto, e riscattati al punto
da poter ricominciare da zero una nuova catena di delitti.
E chi è più
folle, o meglio più felice, di quanti recitando ogni giorno
sette versetti del salterio si ripromettono una beatitudine sconfinata?
A indicare a san Bernardo quei magici versetti si crede sia stato
un demone faceto, più sciocco invero che furbo, se, poveretto,
rimase intrappolato nel suo stesso inganno. Roba da matti! persino
io me ne vergogno. Sono cose, tuttavia, che godono l'approvazione,
non solo del volgo, ma anche di chi propina insegnamenti religiosi.
O non è forse lo stesso
caso di quando ogni regione reclama il suo particolare santo protettore,
ognuno coi suoi poteri, ognuno venerato con determinati riti? questo
fa passare il mal di denti; quello assiste le partorienti. C'è
il santo che fa recuperare gli oggetti rubati, quello che rifulge
benigno al naufrago, un altro che protegge il gregge; e via discorrendo.
Troppo lungo sarebbe elencarli tutti. Ve ne sono che da soli possono
essere utili in parecchi casi; vi ricordo la Vergine, madre di Dio,
alla quale il volgo attribuisce quasi più poteri che al figlio.
41. Infine, che cosa chiedono
gli uomini a questi santi, se non cose che sanno di follia? Fra
tanti ex-voto di cui sono zeppe le pareti, e persino le volte di
certe Chiese, ne avete mai visti di chi fosse guarito dalla follia,
o che fosse diventato, sia pure uno zinzino, più saggio?
Qualcuno si è salvato a nuoto; un altro, ferito dal nemico,
è riuscito a sopravvivere; chi, abbandonato il campo mentre
gli altri combattevano, ne è uscito con fortuna salvando
anche l'onore; uno, con l'aiuto di un santo protettore dei ladri,
è caduto dal patibolo per poter continuare ad alleggerire
delle loro ricchezze quelli che non le meritano. Chi è fuggito
dal carcere forzando la porta; un altro è guarito dalla febbre
con disappunto del medico; a uno la bevanda velenosa non è
stata letale, perchè, sciogliendogli il corpo, gli è
servita da medicina, con scarsa soddisfazione della moglie che si
era data da fare per niente. Un uomo, pur essendoglisi rovesciato
il carro, ha riportato sani e salvi i cavalli. Un altro ancora,
rimasto sotto le macerie, è sopravvissuto; uno, infine, colto
sul fatto da un marito, è riuscito a svignarsela.
Nessuno che renda grazie
per essere stato guarito dalla pazzia. Gran bella cosa mancare di
senno, se i mortali tutto deprecano, fuori che la follia. Ma perchè
poi mi vado a cacciare in questo mare di superstizioni? "Cento
lingue, cento bocche, un'ugola di ferro, non mi basterebbero a enumerare
tutte le varietà di pazzi, a elencare tutte le forme di follia."
(Virgilio, "Eneide"). A tal punto la cristianità
intera trabocca di vaneggiamenti del genere; e i sacerdoti stessi
sono pronti ad ammetterle e incoraggiarle, non ignorando il guadagno
che di solito ne viene. Se però nel frattempo qualche odioso
saggio si levasse a dire le cose come stanno - "morirai bene,
se bene hai vissuto; laverai i tuoi peccati, se all'offerta di una
moneta aggiungerai il pentimento con lacrime, veglie, preghiere,
digiuni, e un radicale cambiamento di vita; avrai la protezione
di questo Santo, se ne imiterai la vita" -; se quel saggio
si mettesse a ripetere queste cose ed altre del genere, vedresti
in quale sgomento farebbe precipitare le anime dei mortali, prima
così colme di letizia!
Rientrano in questa congrega
coloro che da vivi stabiliscono la pompa del proprio funerale con
tanta cura da indicare il numero delle torce, degli incappati, dei
cantori, dei lamentatori di mestiere, come se dovessero avere un
qualche sentore dello spettacolo, o se da morti potessero vergognarsi
qualora il cadavere non fosse sepolto con la debita magnificenza,
a somiglianza di chi, elevato ad una carica, si preoccupa di organizzare
giochi e banchetto.
42. Per quanto cerchi di
non dilungarmi, non riesco proprio a passare sotto silenzio coloro
che, in nulla diversi dall'ultimo ciabattino, si compiacciono tuttavia
oltremodo di un vano titolo nobiliare. Chi, a sentir lui, discende
da Enea, chi da Bruto, chi da Arturo; mostrano da ogni parte gli
antenati in effigie, ritratti da scultori e pittori. Ti enumerano
uno dopo l'altro bisavoli e trisavoli ricordandone gli antichi soprannomi,
mentre per parte loro non dicono molto di più di una muta
statua, anzi dicono meno dei ritratti che ostentano. E tuttavia
il dolce amore di sè li fa vivere in perfetta letizia. Nè
mancano gli sciocchi che guardano a questa razza di animali come
se fossero divinità.
Ma perchè perdermi
a parlare dell'una o dell'altra specie di gente, come se dappertutto
la nostra Filautìa non fosse per tanti, e nelle forme più
inattese, fonte di grandissima felicità?
Questo qui è più
brutto di una scimmia, e si crede un Nireo. Un altro, appena ha
tracciato tre linee col compasso, si crede Euclide. Un altro ancora,
che sta come un asino davanti alla lira, ed ha mezzi vocali degni
di un gallo in amore quando si avventa sulla gallina, s'immagina
di essere un secondo Ermogene. Un posto a parte merita quell'ineffabile
genere di follia per cui tanti, se uno dei loro servi ha delle doti,
se ne gloriano come di cosa propria. Come quel riccone doppiamente
felice di cui parla Seneca, che, se doveva raccontare una storiella,
teneva d'intorno i servi perchè gli suggerissero i nomi;
e, fidando nel fatto di averne in casa tanti assai ben piantati,
pur essendo così debole da reggere l'anima coi denti, non
avrebbe esitato a cimentarsi in una gara di pugilato.
A che ricordare chi fa professione
di artista? La filautìa è peculiare a tutta questa
gente a tal segno, che faresti prima a trovarne uno disposto a cedere
il campicello paterno che a rinunziare al suo talento, soprattutto
nell'ambito degli attori, dei cantori, degli oratori e dei poeti.
Quanto più uno lascia a desiderare, tanto più è
arrogante nell'autocompiacimento, tanto più si vanta, tanto
più si gonfia. Il simile ama il simile, e quanto meno si
vale tanto più si è ammirati; i più vanno sempre
dietro alle cose peggiori, perchè, come ho detto, la maggior
parte degli uomini è soggetta alla follia. Quindi, se chi
è più ignorante è più contento di sè
e ha più largo successo, cosa mai lo dovrebbe indurre ad
optare per una cultura autentica, che in primo luogo gli costerebbe
parecchio, e in secondo luogo lo renderebbe più fragile e
più timido; e, infine, restringerebbe sensibilmente la cerchia
dei suoi ammiratori.
43. Mi rendo conto che la
natura, come ha infuso un amor proprio particolare nei singoli individui,
ne ha instillato uno comune a tutti i cittadini di ciascuna nazione,
e starei per dire di una stessa città. Di qui la pretesa
degli Inglesi di primeggiare, oltre che nel resto, sul piano della
bellezza, della musica, delle laute mense; gli Scozzesi vantano
nobiltà, parentele regali, nonchè dialettiche sottigliezze;
i Francesi rivendicano la raffinatezza dei costumi; i Parigini pretendono
la palma della scienza teologica vantandone un possesso quasi esclusivo;
gli Italiani affermano la loro superiorità nelle lettere
e nell'eloquenza; e si cullano tutti nella dolcissima convinzione
di essere i soli non barbari fra i mortali. Primi, in questo genere
di felicità, sono i Romani, ancora immersi nei bellissimi
sogni dell'antica Roma; quanto ai Veneti, si beano del prestigio
della loro nobiltà. I Greci, quali inventori delle arti,
si vantano delle antiche glorie dei loro famosi eroi; i Turchi,
e tutta quella massa di autentici barbari, pretendono il primato
anche in fatto di religione e quindi deridono i cristiani come superstiziosi.
Molto più gustoso è il caso degli Ebrei che aspettano
sempre incrollabili il proprio Messia, e ancor oggi si tengono aggrappati
al loro Mosè; gli Spagnoli non la cedono a nessuno in fatto
di gloria militare; i Tedeschi si compiacciono dell'alta statura
e della conoscenza della magia.
44. Senza andare dietro ai
casi particolari, vi rendete conto, penso, di quanto piacere venga
dalla Filautìa agli individui e ai mortali in genere. Le
sta quasi alla pari la sorella Adulazione.
La filautìa, infatti,
consiste nell'accarezzare se stessi; se si accarezza un altro, si
tratta di adulazione. Oggi, però, l'adulazione non gode buona
fama; ma questo fra coloro per cui le parole valgono più
delle cose. Ritengono che l'adulazione non si può accompagnare
alla fedeltà, mentre potrebbero rendersi conto di quanto
sbagliano, solo se guardassero all'esempio che viene dalle bestie.
Chi, infatti, più adulatore del cane? e, al tempo stesso,
chi più fedele? Chi è più carezzevole dello
scoiattolo? ma chi più di lui amico dell'uomo? A meno che
non si vogliano considerare più utili all'uomo i fieri leoni,
e le crudeli tigri, o i feroci leopardi. Anche se è vero
che c'è una forma d'adulazione davvero perniciosa con cui
taluni, perfidamente beffando i poveri ingenui, li portano alla
rovina. Questa mia adulazione, invece, ha radice in un certo bonario
candore ed è molto più vicina alla virtù di
quella durezza e severità ruvida e stizzosa, di cui parla
Orazio, e che si suole contrapporle. La mia adulazione rincuora
gli animi abbattuti, raddolcisce la tristezza, riscuote dall'inerzia,
sveglia gli ottusi, dà sollievo ai malati, mitiga i violenti,
mette pace fra gli innamorati e ne conserva la buona armonia. Attira
i fanciulli allo studio delle lettere, rallegra i vecchi, ammonisce
ed ammaestra i prìncipi senza offenderli, sotto specie di
lodarli. Insomma, fa in modo che ciascuno sia di sè più
contento e a sè più caro, il che è parte della
felicità, e addirittura la parte più importante. Che
cosa può esservi di più gentile di due muli che si
grattano a vicenda? Per non aggiungere che questa mia adulazione
è una notevole parte della celebrata eloquenza, e costituisce
la parte maggiore della medicina; della poesia poi è la componente
massima. Ed è miele e condimento di tutte le relazioni umane.
45. Ma è male, dicono,
essere ingannati; c'è molto di peggio: non essere ingannati.
Sono, infatti, proprio privi di buon senso quanti ripongono la felicità
dell'uomo nelle cose stesse. Essa dipende dal nostro modo di vederle.
Infatti tale è l'oscurità e varietà delle cose
umane che niente si può sapere con chiarezza, come giustamente
affermano i miei Accademici, i meno presuntuosi dei filosofi.
Se poi qualcosa si può
sapere, spesso abbiamo poco da rallegrarcene. L'animo umano, infine,
è fatto in modo tale che la finzione lo domina molto più
della verità. Chi ne volesse trovare una prova facilmente
accessibile, potrebbe andare in Chiesa a sentir prediche: qui, se
il discorso si fa serio, tutti sonnecchiano, sbadigliano, si annoiano.
Ma, se l'urlatore di turno (è stato un lapsus, volevo dire
l'oratore), come spesso succede, prende le mosse da qualche storiella
da vecchierelle, tutti si svegliano, si tirano su, stanno a sentire
a bocca aperta. Del pari, se c'è un Santo leggendario e poetico
- per esempio San Giorgio, o San Cristoforo, o Santa Barbara - lo
vedrete venerare con molto maggiore pietà di San Pietro,
e San Paolo, e dello stesso Gesù Cristo. Ma di questo, qui
non è il luogo. Costa veramente poco conquistare la felicità
illusoria che dicevo! Le cose vere, anche le meno rilevanti, come
la grammatica, costano tanta fatica. Un'opinione, invece, costa
così poco, e alla nostra felicità giova altrettanto,
se non di più. Se, per esempio, uno si ciba di pesce in salamoia
andato a male, di cui un altro neppure potrebbe sopportare il puzzo,
mentre per lui sa d'ambrosia, di' un po', che cosa mai gl'impedisce
di godersela? Al contrario, se a uno lo storione dà la nausea,
che razza di piacere ne trarrà? Se una moglie decisamente
brutta al marito sembra tale da poter gareggiare con la stessa Venere,
non sarà forse come se fosse bella davvero? Se uno contempla
ammirato una tavola impiastricciata di rosso e di giallo, persuaso
di trovarsi davanti ad un dipinto di Apelle o di Zeusi, non sarà
forse più felice di chi ha comprato a caro prezzo un'opera
di quegli artisti per poi gustarla forse con minore passione? Conosco
un tale che si chiama come me, e che alla sposa novella donò
alcune gemme false facendogliele credere, con la parlantina che
aveva, non solo assolutamente vere, ma anche rare e di valore inestimabile.
Ditemi un po', che differenza
c'era per la fanciulla, visto che quei pezzetti di vetro rallegravano
altrettanto i suoi occhi e il suo cuore, se conservava gelosamente
presso di sè delle sciocchezzuole di nessun valore come se
fossero chissà qual tesoro? Il marito, frattanto, evitava
una spesa e godeva dell'illusione della moglie che gli era grata
come se avesse ricevuto doni di gran pregio.
Che differenza pensate vi
sia fra coloro che nella caverna di Platone contemplano le ombre
e le immagini delle varie cose, senza desideri, paghi della propria
condizione, e il sapiente che, uscito dalla caverna, vede le cose
vere? Se il Micillo di Luciano avesse potuto continuare a sognare
in eterno il suo sogno di ricchezza, che motivo avrebbe avuto di
desiderare un'altra felicità? La condizione dei folli, perciò,
non differisce in nulla da quella dei savi, o, meglio, se in qualcosa
differisce, è preferibile. Innanzitutto perchè la
loro felicità costa ben poco: solo un piccolo inganno di
sè.
46. E poi perchè ne
godono insieme con moltissimi, e "non c'è bene di cui
si possa godere davvero se non si ha qualcuno con cui dividerlo"
(Seneca, "Epistuale morales"). E chi non sa quanto pochi
sono i sapienti, se pur qualcuno ve n'è? In tanti secoli
i Greci ne contano in tutto sette, e anche di questi, per Ercole,
se si andasse a guardare meglio, nessuno, ho paura, risulterebbe
sapiente a metà, e forse neppure per un terzo.
Perciò, se dei molti
meriti di Bacco giustamente si considera il più importante
la capacità di scacciare gli affanni, e anche questo solo
finchè, appena smaltita la sbornia, gli affanni tornano all'assalto
- come dicono, su bianchi destrieri - quanto più completo
ed efficace il mio beneficio per cui l'animo, in una ebbrezza perenne,
senza nessuna fatica, si riempie di gioia, di piaceri, di esultanza!
Nè lascio alcun mortale privo del mio dono, mentre i doni
degli altri Dèi vanno ora a questo ora a quello.
Non sgorga dappertutto, a
scacciare gli affanni, un dolce vino generoso, fecondo di speranze.
A pochi la bellezza, dono
di Venere; meno ancora sono quelli a cui tocca l'eloquenza, dono
di Mercurio; non molti hanno in sorte, col favore di Ercole, le
ricchezze, nè il Giove omerico concede a tutti l'imperio.
Spesso Marte nega il suo appoggio ad entrambi i contendenti. Parecchi
lasciano il tripode di Apollo con la tristezza in cuore. Il figlio
di Saturno scaglia spesso i suoi fulmini; a volte Febo coi suoi
dardi diffonde la peste. Nettuno ne uccide più di quanti
ne salva; per non menzionare cotesti Veiovi, Plutoni, Sventure,
Pene, Febbri, e simili, che non sono divinità ma carnefici.
Io, la Follia, sono la sola a stringere tutti ugualmente in così
generoso abbraccio.
47. Non voglio preghiere
e non mi sdegno per avere offerte espiatorie, se qualche particolare
del cerimoniale è stato trascurato. Se, quando tutti gli
altri Dèi sono invitati, mi lasciano a casa non permettendomi
neanche di annusare il buon odore delle vittime, non ne faccio una
tragedia. Quanto agli altri Dèi, invece, sono così
suscettibili che quasi meglio sarebbe - senza dubbio sarebbe più
prudente - lasciarli perdere piuttosto che venerarli. Come certi
uomini, così difficili ed irritabili, che è preferibile
non conoscerli affatto piuttosto che averli amici.
Nessuno, dicono, offre sacrifici
o innalza templi alla Follia. Di questa ingratitudine, come dicevo,
un poco mi stupisco, anche se poi, col buon carattere che mi ritrovo,
ci passo sopra. D'altronde onori del genere esulano dai miei desideri.
Perchè mai dovrei desiderare un pugno di incenso, una focaccia,
un becco o un porco, quando gli uomini di tutto il mondo mi tributano
un culto che persino dai teologi viene tenuto nel massimo pregio!
A meno che non debba mettermi ad invidiare Diana perchè riceve
sacrifici di sangue umano! Io ritengo di essere venerata col massimo
della devozione quando tutti gli uomini, come di fatto succede,
mi hanno in cuore e modellano su di me i loro costumi, le loro regole
di vita. Una forma di culto che non è frequente neppure fra
i cristiani.
Quanti sono, infatti, coloro
che accendono alla Vergine, madre di Dio, un candelotto, magari
a mezzogiorno, quando proprio non ce n'è bisogno! D'altra
parte, quanto pochi cercano d'imitarne la castità, la modestia,
l'amore per il regno dei cieli! Mentre è questo alla fine
il vero culto, il più gradito agli abitatori del cielo. Inoltre,
perchè mai dovrei desiderare un tempio, quando l'universo
è il mio tempio? e un gran bel tempio, se non erro. Nè
mi mancano i devoti, se non dove mancano gli uomini. Nè sono
così sciocca da andare in cerca di statue di pietra dipinte
a colori, che spesso nuocciono al nostro culto perchè i più
ottusi adorano le immagini invece delle divinità, mentre
a noi capita quello che di solito succede a quanti sono soppiantati
dai loro rappresentanti. Io credo di avere tante statue quanti sono
gli uomini che, anche senza volere, mostrano nel volto la mia immagine
vivente. Non ho nulla da invidiare agli altri Dèi, se vengono
venerati chi in un cantuccio della terra chi in un altro, e solo
in giorni determinati, come Febo a Rodi, Venere a Cipro, Giunone
ad Argo, Minerva ad Atene, Giove sull'Olimpo, Nettuno a Taranto,
Priapo a Lampsaco. A me il mondo intero offre senza sosta vittime
ben più pregiate.
48. Se qualcuno giudica questo
mio discorso più baldanzoso che veritiero, andiamo un po'
a vedere la vita stessa degli uomini, per mettere in chiaro quanto
mi devono, e in che conto mi tengono, tanto i potenti come i poveri
diavoli.
Non esamineremo la vita di
uomini qualunque, si andrebbe troppo per le lunghe, ma solo quella
di personaggi segnalati, da cui sarà facile giudicare gli
altri. Che importa infatti parlare del volgo e del popolino che,
al di là di ogni discussione, mi appartiene senza eccezioni?
Tante, infatti, sono le forme di follia di cui da ogni parte il
popolo trabocca, tante ne inventa di giorno in giorno, che per riderne
non basterebbero mille Democriti, anche se poi, per quegli stessi
Democriti, ci vorrebbe ancora un altro Democrito. E' quasi incredibile
quanti motivi di riso, di scherzo, di piacevole svago, i poveracci
offrono agli Dèi. Agli Dèi che dedicano le ore antimeridiane,
quando ancora non sono ubriachi, a litigiose discussioni e all'ascolto
delle preghiere. Ma poi, quando sono ebbri di nettare, e non hanno
più voglia di attendere a faccende serie, seduti nella parte
più alta del cielo, si chinano a guardare cosa fanno gli
uomini. Nè c'è spettacolo che gustino di più.
Dio immortale! quello sì che è teatro! Che varietà
nel tumultuoso agitarsi dei pazzi! Io stessa, infatti, talvolta
vado a sedermi nelle file degli Dèi dei poeti. Questo si
strugge d'amore per una donnetta, e quanto meno è riamato
tanto più ama senza speranza. Quello sposa la dote e non
la donna. Quell'altro prostituisce la sposa, mentre un altro ancora,
roso dalla gelosia, tiene gli occhi aperti come Argo. Quali spettacolari
sciocchezze dice e fa qualcuno in circostanze luttuose, arrivando
a pagare dei professionisti perchè recitino la commedia del
compianto! C'è chi piange sulla tomba della matrigna, e chi
spende tutto ciò che può racimolare per impinguarsi
il ventre, a rischio, magari, di ridursi in breve a morire di fame.
Qualcuno pone in cima ai suoi pensieri il sonno e l'ozio. C'è
chi si prodiga con ogni cura per gli affari degli altri mentre trascura
i propri, e chi, preso nel giuoco dei debiti, prossimo a fallire,
si crede ricco del denaro altrui; un altro pone all'apice della
sua felicità morire povero pur di arricchire l'erede. Questi
per un guadagno modesto, e per giunta incerto, corre tutti i mari,
affidando la vita, che il denaro non ricompra, alle onde e ai venti;
quello preferisce cercare di arricchirsi in guerra piuttosto che
starsene al sicuro in casa sua. Ci sono di quelli che credono si
possa arrivare alla ricchezza senza la minima fatica andando a caccia
di vecchi senza eredi; nè manca chi, in vista dello stesso
risultato, opta per un legame con vecchiette danarose. Gli uni e
gli altri offrono agli Dèi che stanno a guardare uno spettacolo
oltremodo divertente, quando si fanno abbindolare proprio da coloro
che vogliono intrappolare. La razza più stolta e abietta
è quella dei mercanti che, pur trattando la più sordida
delle faccende e nei modi più sordidi, pur mentendo, spergiurando,
rubando, frodando a tutto spiano, si credono da più degli
altri perchè hanno le dita inanellate d'oro. Nè mancano
di adularli certi fraticelli che li ammirano e li chiamano apertamente
venerabili, senza dubbio perchè una piccola parte degli illeciti
profitti vada a loro. Altrove puoi vedere dei Pitagorici, a tal
segno convinti della comunanza dei beni, che, se trovano qualcosa
d'incustodito, tranquillamente se ne appropriano come l'avessero
ricevuto in eredità. C'è chi, ricco solo di speranze,
sogna la felicità, e già questo sogno, per lui, è
la felicità. Taluni si compiacciono di essere creduti ricchi,
mentre a casa loro muoiono di fame. Uno si affretta a dilapidare
tutto quello che possiede; un altro accumula con mezzi leciti e
illeciti. Questo si fa portare candidato perchè ambisce a
pubbliche cariche, quello è contento di starsene accanto
al fuoco. E sono tanti quelli che intentano interminabili cause
e che, portatori di opposti interessi, fanno a gara per arricchire
il giudice che accorda rinvii, e l'avvocato che è in combutta
con la parte avversa. Uno ha la mania di rinnovare il mondo, un
altro propende per il grandioso. C'è chi, senza nessuna ragione
d'affari, lascia a casa moglie e figli e se ne va a Gerusalemme,
a Roma, a San Giacomo di Compostella.
Insomma, se, come una volta
Menippo dalla Luna, potessimo contemplare dall'alto gli uomini nel
loro agitarsi senza fine, crederemmo di vedere uno sciame di mosche
e di zanzare in contrasto fra loro, intente a combattersi, a tendersi
tranelli, a rapinarsi a vicenda, a scherzare, a giocare, nell'atto
di nascere, di cadere, di morire. Si stenta a credere che razza
di terremoti e di tragedie può provocare un animaletto così
piccino e destinato a vita così breve. Infatti, di tanto
in tanto, un'ondata anche non grave di guerra o di pestilenza ne
colpisce e ne distrugge migliaia e migliaia.
49. Sarei io stessa un'autentica
pazza, e meriterei proprio di far ridere Democrito a più
non posso, se continuassi ad elencare tutte le forme di stolta pazzia
proprie del volgo. Mi rivolgerò a quelli che fra i mortali
vestono l'abito della sapienza e, come si dice, aspirano al famoso
ramo d'oro.
Fra loro al primo posto stanno
i grammatici, che sarebbero per certo la genìa più
calamitosa, più lugubre, più invisa agli Dèi,
se non ci fossi io a mitigare, con una dolce forma di follia, i
guai di quella infelicissima professione. Su di essi, infatti, non
pesano solo le cinque maledizioni di cui parla l'epigramma greco,
ma tante, tante di più: sempre affamati, sempre sporchi,
se ne stanno nelle loro scuole, e le ho chiamate scuole, ma avrei
dovuto dire luoghi dove si lavora come schiavi, camere di tortura;
fra turbe di ragazzi invecchiano nella fatica; assordati dagli schiamazzi,
imputridiscono nel puzzo e nel sudiciume; tuttavia, per mio beneficio,
avviene che si ritengano i primi tra gli uomini. Sono così
contenti di sè, quando col volto truce e con la voce minacciosa
atterriscono la tremebonda folla degli alunni; quando le suonano
a quei disgraziati con sferze, verghe e scudisci, e in tutti i modi
incrudeliscono a loro capriccio, a imitazione del famoso asino di
Cuma. Intanto, per loro, quel sudiciume è la quintessenza
del nitore, quel puzzo sa di maggiorana, quell'infelicissima schiavitù
è pari a un regno, a tal punto che rifiuterebbero di scambiare
la loro tirannide col potere di Falaride o di Dionigi. Ma anche
più felici si sentono per non so quale convinzione di essere
dei dotti. Mentre ficcano in testa ai ragazzi madornali sciocchezze,
tuttavia, Dio buono, di fronte a chi, Palemone o Donato che sia,
non ostentano sprezzante superiorità? E con non so quali
trucchi riescono a meraviglia nell'intento di apparire al re sciocche
mammine e ai padri scemi pari all'opinione che hanno di sè.
C'è poi un'altra fonte
di piacere: quando uno di loro scova in un foglio ammuffito il nome
della madre di Anchise, o una paroletta di uso non comune, BUBSEQUA,
BOVINATOR o MANTICULATOR, o quando, scavando da qualche parte, tira
fuori un frammento di antico sasso che porta un'iscrizione mutila.
O Giove, che esplosioni di gioia allora, che trionfi, che elogi!
come se avesse messo in ginocchio l'Africa, o espugnato Babilonia!
E che diremo di quando vanno sbandierando a tutto spiano i loro
insulsissimi versiciattoli, che non mancano peraltro di ammiratori?
credono ormai che lo spirito di Virgilio sia penetrato in loro.
Ma la scena più divertente si ha quando si scambiano lodi
e complimenti, e a vicenda si danno una lisciatina. Se poi uno di
loro incappa in un lapsus, e un altro più avveduto per caso
se ne accorge, allora sì, per Ercole, che ne viene fuori
una tragedia a base di polemiche, di litigi, di ingiurie! Possano
tutti i grammatici volgersi contro di me, se mento.
Ho conosciuto una volta un
tale, dotto in svariati campi: sapeva di greco, di latino, di matematica,
di filosofia, di medicina, e questo a livello superiore. Ormai sessantenne,
messo da parte tutto il resto, da oltre vent'anni si tormenta sulla
grammatica, ritenendo di poter essere felice se vivrà abbastanza
da stabilire con certezza come vadano distinte le otto parti del
discorso; finora nessuno, nè dei Greci nè dei Latini,
ci è riuscito pienamente. Di qui quasi un caso di guerra
se uno considera congiunzione una locuzione avverbiale. A questo
modo, pur essendovi tante grammatiche quanti grammatici, anzi di
più se solo il mio amico Aldo Manuzio ne ha pubblicate più
di cinque, questo tale non tralascia di leggerne ed esaminarne minuziosamente
nessuna, per barbara o goffa che sia nello stile. Guarda infatti
con sospetto chiunque faccia in materia un tentativo, sia pure insignificante,
attanagliato com'è dalla paura che qualcuno lo privi della
gloria, rendendo vane così annose fatiche. Preferite chiamarla
follia o stoltezza? A me poco importa, purchè siate disposti
a riconoscere che, per mio beneficio, l'animale più infelice
di tutti può attingere tale una felicità da non volere
scambiare la propria sorte neppure con quella dei re persiani.
50. Meno mi devono i poeti,
che pure appartengono apertamente alle mie schiere, libera schiatta
come sono, secondo il proverbio, tutti presi dall'impegno di sedurre
l'orecchio dei pazzi con autentiche sciocchezze e storielle risibili.
Fidando in questi mezzi, mirabile a dirsi, promettono immortalità
e divina beatitudine a se stessi e anche agli altri. A costoro soprattutto
sono legate Filautìa e Kolakìa, che da nessun'altra
stirpe mortale ricevono un culto altrettanto schietto e costante.
Quanto ai retori, benchè prevarichino un poco con la complicità
dei filosofi, fanno parte anche loro della nostra confraternita.
Molte cose lo dimostrano, ma una in primo luogo: che, a parte le
altre sciocchezze, tanto hanno scritto e con tanto impegno a proposito
dell'arte di scherzare. E l'autore, chiunque esso sia, della RETORICA
AD ERENNIO, annovera la follia tra le varietà di facezie;
Quintiliano poi, che in questo campo è di gran lunga il migliore,
ci ha dato sul riso un capitolo più lungo dell'ILIADE. Tanto
essi valorizzano la follia che spesso quando sono a corto d'argomenti,
cercano una scappatoia nel riso. A meno di negare che sia proprio
della follia suscitare ad arte pazze risate dicendo cose che appunto,
fanno ridere.
Nella stessa schiera rientrano
quelli che aspirano a fama immortale pubblicando libri. Mi devono
tutti moltissimo, ma in particolare coloro che imbrattano i fogli
con autentiche sciocchezze. Gli eruditi, infatti, che scrivono per
pochi dotti, e che non rifiutano per giudici nè Persio nè
Lelio, a me non sembrano punto felici, ma piuttosto degni di pietà,
perchè senza posa si arrovellano a fare giunte, mutamenti,
tagli, sostituzioni. Riprendono, limano; chiedono pareri; lavorano
a una cosa anche per nove anni, e non sono mai contenti; a così
caro prezzo comprano un premio da nulla quale è la lode,
e lode di pochissimi, per di più: la pagano con tante veglie,
con tanto spreco di sonno - il sonno, la più dolce delle
cose! - con tanta fatica, con tanto sacrificio.
Aggiungi il danno della salute,
la bellezza che se ne va, il calo della vista, o addirittura la
cecità, la povertà, l'invidia degli altri, la rinuncia
ai piaceri, la senescenza precoce, la morte prematura; e chi più
ne ha, più ne metta. Il sapiente crede che ne valga la pena:
mali sì gravi in cambio del plauso di uno o due cisposi.
Quanto più felice il delirio dello scrittore mio seguace
quando, senza starci punto a pensare, solo col modico spreco di
un po' di carta, seguendo l'ispirazione del momento, traduce prontamente
in scrittura tutto quanto gli passa per la testa, anche i sogni,
sapendo che più sciocche saranno le sciocchezze che scrive,
e più troverà consenso nella maggioranza, cioè
in tutti gli stolti e ignoranti. Che importa il disprezzo di tre
dotti, ammesso che le leggano? e che peso può avere il giudizio
di così pochi sapienti, se a contrastarlo c'è una
folla così sconfinata? Ma ancora più avveduti si rivelano
coloro che pubblicano, spacciandoli per propri, gli scritti altrui
e valendosi dell'apparenza trasferiscono sulla propria persona una
gloria che è frutto del faticoso impegno d'altri; fidano
su questo, che se anche saranno accusati di plagio, tuttavia, per
qualche tempo, avranno tratto vantaggio dall'inganno.
Vale la pena di vedere come
sono soddisfatti di sè quando la gente li elogia, quando
li segna a dito nella folla: "E lui! lo scrittore famoso!";
quando i loro libri stanno in mostra in libreria, quando in cima
a ogni pagina si leggono quei tre nomi, soprattutto se stranieri
e con un sapore di magia. Ma cosa sono poi, buon Dio, se non dei
nomi? E quanto pochi saranno a conoscerli, se si pensa a quant'è
grande il mondo; e meno ancora, poi, saranno a lodarli, perchè
anche gli ignoranti hanno gusti diversi. Che dite degli stessi nomi,
non di rado fittizi e tratti dai libri degli antichi? Chi si compiace
di chiamarsi Telemaco, chi Steleno o Laerte; chi Policrate e chi
Trasimaco, tanto che ormai potremmo benissimo chiamarli camaleonte
o zucca, oppure indicare i libri con le lettere dell'alfabeto, secondo
l'uso dei filosofi.
Eppure più di tutto
diverte vederli, sciocchi e ignoranti come sono, impegnati a scambiare
con altri, sciocchi e ignoranti come loro, lettere e versi elogiativi,
encomi. In questi scambi di lodi, chi diventa un Alceo e chi un
Callimaco; chi è superiore a Cicerone e chi più dotto
di Platone. A volte, per accrescere nella gara la loro fama, creano
un avversario, e "il pubblico, incerto, non sa quale partito
prendere", finchè ne escono tutti vittoriosi e lasciano
il campo da trionfatori.
I saggi ridono di queste
cose come di solenni sciocchezze, e tali sono. Chi lo nega? Ma intanto,
per merito mio, quelli se la godono e non scambierebbero i loro
trionfi neppure con quelli degli Scipioni. Gli stessi dotti, del
resto, mentre ridono divertendosi un mondo e godono della follia
altrui, contraggono anch'essi con me un gran debito; nè possono
negarlo, se non sono proprio degl'ingrati.
51. Fra gli eruditi il primo
posto spetta ai giureconsulti, e nessuno più di loro è
soddisfatto di sè quando, impegnati in una fatica di Sisifo,
formulano leggi a migliaia, non importa a qual proposito, e aggiungendo
glosse a glosse, pareri a pareri, fanno in modo da presentare lo
studio del diritto come il più difficile fra tutti. Attribuiscono
infatti titolo di nobiltà a tutto ciò che costa fatica.
Accanto ai giuristi collochiamo
i dialettici e i sofisti, una genìa più loquace dei
bronzi di Dodona: uno qualunque di loro potrebbe gareggiare in fatto
di chiacchiera con venti donne di prima scelta. Meglio per loro
sarebbe, se fossero soltanto chiacchieroni, e non anche litigiosi
al punto di polemizzare con estrema tenacia per questioni di lana
caprina e da trascurare spesso, nella foga della contesa, i diritti
della verità. Pieni di sè come sono, godono ugualmente
quando, armati di tre sillogismi, non esitano ad attaccare lite
con chiunque, a qualunque proposito. Del resto la loro pertinacia
li rende invincibili, anche se il loro avversario è uno Stentore.
52. E poi ci sono i filosofi,
venerandi per barba e mantello: affermano di essere i soli sapienti;
tutti gli altri sono soltanto ombre inquiete. Ma com'è bello
il loro delirio quando costruiscono mondi innumerevoli; quando misurano,
quasi col pollice e il filo, il sole, la luna, le stelle, le sfere;
quando rendono ragione dei fulmini, dei venti, delle eclissi e degli
altri fenomeni inesplicabili, senza la minima esitazione, come se
fossero a parte dei segreti della natura artefice delle cose, come
se venissero a noi dal consiglio degli Dèi! La natura, intanto,
si fa le grandi risate su di loro e sulle loro ipotesi. A dimostrare
che nulla sanno con certezza, basterebbe quel loro polemizzare sulla
spiegazione di ogni singolo fenomeno. Loro, pur non sapendo nulla,
affermano di sapere tutto; non conoscendo se stessi e non accorgendosi,
a volte, della buca o del sasso che hanno sotto il naso, o perchè
in molti casi ci vedono poco, o perchè sono altrove con la
testa, sostengono di vedere idee, universali, forme separate, materie
prime, quiddità, ecceità, e cose tanto sottili da
sfuggire, credo, persino agli occhi di Linceo. Disprezzano in particolare
il profano volgo, quando confondono le idee agli ignoranti con triangoli,
quadrati, circoli, e figure geometriche siffatte, disposte le une
sulle altre a formare una specie di labirinto, e poi con lettere
collocate quasi in ordine di battaglia e variamente manovrate. Nè
mancano, fra loro, quelli che, consultando gli astri, predicono
l'avvenire promettendo miracoli che vanno al di là della
magia; e, beati loro, trovano anche chi ci crede.
53. Quanto ai teologi, forse
meglio farei a non parlarne, evitando di suscitare un vespaio e
di toccare quest'erba puzzolente, perchè, altezzosi e litigiosi
come sono, non abbiano ad assalirmi a schiere con centinaia di argomenti,
costringendomi a fare ammenda. Se mi rifiutassi, mi accuserebbero
senz'altro di eresia, questo essendo il fulmine con cui di solito
atterriscono chi non gode le loro simpatie. Eppure, ancorchè
siano i meno propensi a riconoscere i miei meriti nei loro confronti,
anche loro, e di non poco, mi sono debitori. Infatti devono a me
quell'alta opinione di sè che li rende felici, come se il
terzo cielo fosse la loro dimora, e li induce a guardare dall'alto
in basso con una sorta di commiserazione tutti gli altri mortali,
quasi animali che strisciano a terra, mentre loro, trincerati dietro
un valido esercito di magistrali definizioni, conclusioni, corollari,
proposizioni esplicite ed implicite, a tal segno abbondano di scappatoie
da poter sfuggire anche alle reti di Vulcano con distinzioni che
recidono ogni nodo con una facilità che neppure la bipenne
di Tenedo possiede, inesauribili nel coniare termini nuovi e parole
rare. Spiegano inoltre, a modo loro, gli arcani misteri, i criteri
che sono a base della creazione e dell'ordinamento del mondo; per
quali vie la macchia del peccato si è trasmessa di generazione
in generazione; in che modo, in che misura e in quanto tempo Cristo
si è formato nel grembo della Vergine; come nell'Eucaristia
ci possono essere gli accidenti senza la materia. Ma queste sono
cose risapute. Altre le questioni che ritengono degne dei teologi
grandi e illuminati - così li chiamano. Quando se le trovano
di fronte si esaltano:
"Qual è l'istante
della generazione divina? ci sono più filiazioni in Cristo?
è sostenibile la proposizione "Dio Padre odia il Figlio"?
avrebbe potuto Dio assumere figura di donna, di demonio, di asino,
di zucca, di pietra? In caso affermativo, come la zucca avrebbe
potuto predicare, fare miracoli, essere messa in croce? che cosa
avrebbe consacrato Pietro, se avesse consacrato mentre Cristo pendeva
dalla croce? e poteva Cristo, in quel medesimo tempo, essere chiamato
uomo? Infine, dopo la resurrezione, potremo mangiare e bere?".
Della fame e della sete, infatti, costoro si preoccupano fino da
ora. Innumerevoli poi le sottigliezze, anche molto più sottili
di queste, circa le nozioni, le relazioni, le formalità,
le quiddità, le ecceità, che sfuggirebbero agli occhi
di tutti, fatta eccezione di un novello Linceo capace di vedere
nelle tenebre più profonde anche le cose che non sono in
nessun luogo. Aggiungi sentenze così paradossali che i famosi
oracoli stoici, detti appunto paradossi, sembrano al confronto luoghi
comuni dei più rozzi e banali. Per esempio, che accomodare
una volta la scarpa di un povero nel giorno del Signore è
delitto più grave che strangolare mille uomini; che dire
una volta tanto una sola bugia, per quanto piccina, è più
grave che lasciare andare in malora il mondo intero con tutta la
sua dovizia di cose utili e belle. A rendere ancora più sottili
queste sottilissime sottigliezze ci sono le tante vie battute dagli
scolastici, chè usciresti prima dai labirinti che non dalle
oscure tortuosità di realisti, nominalisti, tomisti, albertisti,
occamisti, scotisti; e non ho nominato tutte le scuole, ma solo
le principali.
In tutte c'è tanta
erudizione, tanta astrusità, che, secondo me, persino gli
Apostoli, se si trovassero a dover discutere con questi teologi
di nuovo genere, avrebbero bisogno di un secondo Spirito Santo.
Paolo potè dimostrare la sua fede, ma quando dice che "la
fede è sostanza di cose sperate, e argomento delle non parventi",
dà una definizione manchevole dal punto di vista dottrinale.
Proprio Paolo, che in modo eccellente fece professione di carità,
ne dette, nel capitolo tredicesimo della prima epistola ai Corinzi,
un'analisi ed una definizione difettose in sede dialettica. Gli
Apostoli, certamente, celebravano l'Eucaristia con la dovuta pietà.
Non credo però che, interrogati sul termine A QUO e sul termine
AD QUEM, sulla transubstanziazione, sull'ubiquità di un medesimo
corpo; sulla differenza tra il corpo di Cristo in cielo, sulla croce
e nel sacramento dell'Eucaristia; sull'istante in cui avviene la
transubstanziazione, dovuta com'è ad una formula composta
di più parole distinte, e quindi a una quantità discreta
in divenire: non credo, ripeto, non credo che, nel discutere e nel
definire, gli Apostoli avrebbero raggiunto la sottigliezza degli
scotisti.
Avevano conosciuto la madre
di Gesù; ma chi di loro dimostrò, con l'ineccepibile
metodo filosofico dei nostri teologi, come rimase immune dalla macchia
del peccato di Adamo? Pietro ha ricevuto le chiavi, e le ha ricevute
da colui che non le darebbe a un indegno; e tuttavia non so se avrebbe
capito - certo non ne ha mai colto la sottigliezza - la questione
del come possa possedere la chiave della scienza anche chi non ha
la scienza. Gli Apostoli battezzavano in ogni luogo; tuttavia non
hanno mai insegnato quale sia la causa formale, materiale, efficiente
e finale del battesimo, nè mai hanno fatto menzione del suo
carattere delebile e indelebile. Gli Apostoli adoravano, sì,
Dio, ma in spirito, attenendosi unicamente al principio evangelico:
"Dio è spirito, e chi lo adora deve adorarlo in spirito
e verità". Non pare tuttavia sia stato ad essi ben chiaro
che dobbiamo adorare Cristo allo stesso modo, sia in persona che
in una sua immagine scarabocchiata col carbone sul muro, purchè
vi appaia con due dita levate, i capelli lunghi e tre raggi nell'aureola
che gli cinge la nuca. Come si possono cogliere queste finezze,
se prima non ci si è dedicati anima e corpo, per almeno trentasei
anni, alla fisica e alla metafisica di Aristotele e di Duns Scoto?
Allo stesso modo gli Apostoli parlano della grazia, ma non fanno
mai distinzione fra grazia gratuita e grazia gratificante. Esortano
alle opere buone, ma non distinguono fra opera operante e opera
operata. Dappertutto insistono sulla carità, ma non distinguono
fra carità infusa e carità acquisita, nè spiegano
se sia sostanza o accidente, cosa creata o increata. Detestano il
peccato, ma possa io morire se sono riusciti a definire cosa sia
quello che diciamo peccato; per questo avrebbero dovuto formarsi
alla scuola degli scotisti. L'insegnamento di Paolo può essere
preso come punto di riferimento per giudicare di tutti gli Apostoli;
ebbene, io non potrei mai indurmi a credere che egli avrebbe così
spesso condannato le questioni, le discussioni, le genealogie e
quelle che chiamava logomachìe, se fosse stato un esperto
nell'argomentare. E sì che le dispute dei suoi tempi erano
senz'altro roba da ridere in confronto alle sottigliezze dei nostri
maestri che potrebbero dare punti a Crisippo.
Anche se poi questi maestri,
nella loro grande modestia, quando gli Apostoli hanno scritto una
cosa in forma disadorna, e, certo, non magistrale, non la condannano,
ma ne offrono un'accettabile interpretazione Quest'onore tributano
in parte all'antichità, in parte all'autorità degli
Apostoli. Del resto, sarebbe stata, per Ercole, una bella ingiustizia
pretendere la conoscenza di cose tanto difficili da chi non ne aveva
mai sentito far parola dal maestro. Se però la cosa si verifica
in Crisostomo, in Basilio, in Girolamo, ritengono sia sufficiente
annotare: "affermazione respinta". Eppure si tratta di
autori che confutarono i pagani, i filosofi, gli ebrei, per loro
natura ostinatissimi; lo fecero con la vita e coi miracoli più
che con i sillogismi. D'altra parte nessuno dei loro avversari sarebbe
stato in grado di capire neppure una delle "questioni quodlibetali"
di Scoto. Al giorno d'oggi, qual mai pagano, qual mai eretico non
si darebbe senz'altro per vinto di fronte a tante capillari sottigliezze?
Bisognerebbe fosse tanto ignorante da non capirci nulla, o tanto
privo di ritegno da scoppiare in sconce risate; o, infine, così
esperto in quei medesimi cavilli da combattere ad armi pari: un
mago di fronte a un mago, o un duello fra due avversari armati entrambi
di una spada incantata: tutto si ridurrebbe a tessere e ritessere
la tela di Penelope. Secondo me i cristiani darebbero prova di un
gran buon senso se, invece delle rozze armate che ormai da un pezzo
combattono con esito incerto, inviassero contro i Turchi gli scotisti
coi loro grandi schiamazzi, gli occamisti così ostinati,
gl'invitti albertisti, e con essi l'intera banda dei sofisti: assisterebbero,
credo, alla più divertente delle battaglie e a una vittoria
mai vista prima. Chi, infatti, potrebbe essere tanto freddo da resistere
ai loro strali infuocati? chi tanto torpido da non esserne stimolato?
chi tanto avveduto da non restarne accecato?
Ma voi credete che i miei
siano tutti scherzi. Posso capirlo: anche fra i teologi ve ne è
di più dotti, che tengono a vile queste arguzie teologiche
giudicandole futili. Ve ne sono che considerano un sacrilegio esecrando,
e il massimo dell'empietà, parlare con linguaggio così
volgare di cose tanto misteriose, oggetto d'adorazione più
che di spiegazione; discuterne usando il profano argomentare dei
pagani; definirle con tanta presunzione, e infangare la maestà
della divina teologia con parole e concetti così poveri e
addirittura sordidi.
Nel frattempo, però,
gli altri rimangono pieni di sè, addirittura si battono le
mani, e dediti notte e giorno alle loro piacevolissime cantilene
non trovano neppure un minuto per leggere almeno una volta il Vangelo
o le lettere di san Paolo. E, mentre nelle scuole vanno propinando
ai discepoli simili sciocchezze, credono di essere loro a salvare
da certa rovina la Chiesa universale sostenendola con la forza dei
loro sillogismi, come il mitico Atlante sosteneva con le spalle
il mondo. E vi pare poco gratificante por mano ai misteri delle
Scritture plasmandole a piacere, ora in questa ora in quella guisa,
come fossero cera? Esigere che le proprie conclusioni, già
accettate da un certo numero di scolastici, siano ritenute più
importanti delle leggi di Solone e addirittura da anteporre ai decreti
dei pontefici? Se poi qualcosa non coincide a capello con le loro
conclusioni esplicite e implicite, come fossero i censori del mondo,
ne impongono la ritrattazione e, come se parlasse l'oracolo, sentenziano:
"Proposizione scandalosa"; "proposizione irriverente";
"questa odora di eresia"; "questa suona male".
Per fare un cristiano non basta più il battesimo, nè
il Vangelo, nè Pietro, nè Paolo, nè san Girolamo,
nè sant'Agostino; addirittura non basta neppure Tommaso,
il principe degli aristotelici. Ci vuole anche il voto di questi
baccellieri, così sottili nel giudicare. Chi, infatti, senza
l'insegnamento di questi sapienti, si sarebbe mai accorto che non
era cristiano chi riteneva ugualmente corrette queste due proposizioni:
"vaso da notte, tu puzzi" e "il vaso da notte puzza";
oppure: "bolle la pentola" e "la pentola bolle"?
Chi avrebbe liberato la Chiesa
da così gravi errori, di cui nessuno si sarebbe mai accorto,
se costoro non li avessero denunciati col sigillo della loro alta
autorità? E non saranno al colmo della gioia mentre fanno
tutto ciò? o quando ritraggono con molta esattezza il mondo
infernale come se per molti anni fossero stati cittadini di quella
repubblica? o quando fabbricano a capriccio nuove sfere celesti,
creandone infine una più grande di tutte, più bella,
perchè le anime beate abbiano agio di passeggiarvi, di banchettare
e anche di giocare a palla? A tal segno la loro testa è infarcita
di una miriade di sciocchezze del genere che, secondo me, nemmeno
quella di Giove era così gonfia quando, sul punto di partorire
Minerva, chiese a Vulcano di tirare un bel colpo di scure. Perciò
non vi stupite quando nelle pubbliche dispute li vedete con la testa
così accuratamente imberrettata: se no, scoppierebbe.
A volte, anch'io rido del
fatto che, quanto più il loro linguaggio è barbaro
e rozzo, tanto più si credono grandi teologi, e in quel balbettare,
comprensibile solo da un altro balbuziente, loro chiamano finezza
d'ingegno quello che la gente non capisce. Negano infatti che sia
compatibile con la dignità delle sacre lettere sottomettersi
alle leggi della grammatica. Mirabile maestà, invero, quella
dei teologi, se a loro soli è lecito costellare di spropositi
il discorso, anche se poi hanno in comune questo privilegio con
molti ignoranti. Infine si ritengono ormai vicinissimi agli Dèi
quando vengono salutati con venerazione quasi religiosa, e chiamati
maestri nostri. Credono presente in quell'appellativo qualcosa di
simile al tetragramma degli ebrei. Perciò considerano un'empietà
non scrivere "Magister noster" tutto in lettere maiuscole.
Se poi qualcuno, invertendo, dicesse "noster Magister",
di colpo annullerebbe la maestà del nome teologico.
54. Quasi altrettanto felici,
sono quelli che comunemente si fanno chiamare religiosi e monaci,
usando, in entrambi i casi, denominazioni quanto mai false. Per
buona parte, infatti, sono mille miglia lontani dalla religione;
e nessuno s'incontra in giro più di questi pretesi solitari.
Non vedo che cosa potrebbe esserci di più miserando di loro,
se non ci fossi io a soccorrerli in tanti modi. Perchè, pur
essendo questa genìa a tal segno detestata da tutti, che
persino un incontro casuale con qualcuno di loro è ritenuto
di malaugurio, si cullano tuttavia nell'illusione di essere chissà
che cosa. In primo luogo ritengono che il massimo della pietà
consista nell'essere tanto ignoranti da non sapere neppur leggere.
Poi, quando con la loro voce asinina ragliano i loro salmi, di cui
sono in grado di indicare a memoria il numero d'ordine senza peraltro
capirli, sono convinti d'accarezzare in modo dolcissimo le orecchie
degli Dèi. Neppure mancano quelli che vendono a caro prezzo
il loro sudiciume e l'andare in giro mendicando: dinanzi alle porte
chiedono il pane emettendo muggiti lamentosi; non c'è albergo,
non veicolo o nave in cui non portino scompiglio con non piccolo
danno degli altri mendicanti. Cosi, queste carissime persone, dicono
di darci un'immagine degli Apostoli con la loro sporcizia, ignoranza,
rozzezza, impudenza.
E cosa c'è di più
divertente del loro fare tutto secondo una regola, quasi in base
a un calcolo matematico che sarebbe delittuoso violare? Quanti nodi
deve avere il sandalo; di che colore deve essere il cordone; quale
il modello della veste; di cosa deve essere fatta, e di quale larghezza
la cintura; di che tipo e di che capacità il cappuccio; quale
la precisa misura della chierica; quante ore vanno concesse al sonno?
Eppure, quanta diversità, chi non lo vede, in questa uguaglianza
imposta a corpi e temperamenti così vari! Tuttavia, per queste
sciocchezzuole, non solo si considerano superiori agli altri, ma
anche fra di loro si disprezzano a vicenda e, pur professando la
carità apostolica, fanno un'autentica tragedia di una cintura
diversa o di un colore un po' più scuro. Ne potresti vedere
di così rigidamente attaccati alla regola da portare esclusivamente
vesti di lana di Cilicia, e biancheria di lino di Mileto; altri,
al contrario, portano vesti di lino e biancheria di lana. C'è
chi, odiando toccare il danaro come fosse veleno, non si astiene
comunque nè dal vino nè dalle donne. Infine, mirabile
in tutti, la cura di non avere nulla in comune quanto a regola di
vita, e questo, non nell'intento di guardare a Cristo, ma per distinguersi
tra di loro.
Buona parte della loro soddisfazione
deriva dai nomi: gli uni si compiacciono del nome di Cordiglieri,
distinti in Coletani, Minori, Minimi, Bollisti; altri godono del
nome di Benedettini, o di Bernardini; questi di Brigidensi, quelli
di Agostiniani; gli uni tengono alla denominazione di Guglielmiti,
altri di Giacobiti, come se chiamarsi Cristiani fosse troppo poco.
Gran parte di costoro, a tal punto dà peso alle proprie cerimonie
e a minute tradizioni umane, da ritenere che un solo cielo non sia
premio adeguato a meriti così grandi; e non pensano che Cristo,
non facendo alcun conto del resto, chiederà loro se hanno
osservato il suo unico precetto: la carità. Allora uno esibirà
il pancione gonfio di pesci d'ogni specie; un altro rovescerà
al suo cospetto centinaia di moggi di salmi. Un altro ancora farà
il conto degli infiniti digiuni; se poi tante volte ha rischiato
di scoppiare, è stato per quell'unico pasto che si concedeva...
dopo. Altri ancora mostrerà il mucchio delle cerimonie a
cui ha partecipato, tanto greve che a malapena potrebbero trasportarlo
sette navi da carico. Qualcuno si vanterà di avere oltrepassato
i sessant'anni senza toccare denaro, se non con le mani protette
da due paia di guanti. Chi produrrà la cocolla tanto sporca
e grassa che neanche un marinaio se ne gioverebbe. Chi ricorderà
di avere fatto per più di undici anni la vita dell'ostrica,
sempre attaccato allo stesso luogo; e chi si farà un merito
della voce divenuta rauca per l'ininterrotto cantare, o del rimbecillimento
derivato dalla vita solitaria; altri ancora della lingua resa torpida
dal voto del silenzio. Ma Cristo, interrompendo queste vanterie
che altrimenti rischierebbero di non finire più, "Di
dove viene, dirà, questa nuova schiatta di Giudei? Riconosco
per mia una legge sola, e solo di questa non si fa parola. Pure,
una volta, con aperto linguaggio, e non in forma di parabola, ho
promesso l'eredità del padre mio non alle cocolle, non alle
giaculatorie ed ai digiuni, ma alle opere di carità. Non
conosco questa gente che esalta continuamente i propri meriti; dato
che vorrebbero sembrare anche più santi di me, occupino,
se vogliono, i cieli dei seguaci di Abraxas, o si facciano edificare
un nuovo cielo da coloro le cui meschine tradizioni anteposero ai
miei precetti".
Quando sentiranno queste
parole, e si vedranno preferire marinai e aurighi, con che faccia
credete che si guarderanno a vicenda?
Nel frattempo si beano della
loro speranza, e non senza mio merito. E poi, benchè lontani
dalla vita pubblica, nessuno osa disprezzarli, i mendicanti in particolare,
perchè attraverso la cosiddetta confessione conoscono senza
eccezione i segreti di tutti. Rivelarli, tuttavia, secondo loro,
è peccato, salvo dopo una bevuta, quando vogliono dilettarsi
di qualche racconto più divertente; ma anche allora raccontano
i fatti solo in via ipotetica, senza far nomi. Se però qualcuno
irrita questi calabroni, predicando al popolo, se ne vendicano a
misura di carbone, e bollano il nemico con allusioni tanto scoperte
da essere capite da tutti, salvo da chi non capisce proprio nulla.
Nè la smettono di latrare, se prima non gli hai gettato il
boccone in bocca.
Eppure, quale commediante,
quale ciarlatano andresti a vedere a preferenza di costoro, quando
nella predica s'esibiscono in tirate retoriche che, pur nella loro
assoluta ridicolaggine, s'attengono nel modo più spassoso
alle norme sull'arte del dire tramandate dai maestri? Dio immortale!
come gesticolano! E come cambiano voce! E come canterellano! Come
si spenzolano verso l'uditorio e come mutano espressione! come punteggiano
tutto con urla! Quest'arte oratoria viene trasmessa come un segreto
da un fraticello all'altro: sebbene non mi sia concesso di venirne
a conoscenza, tenterò comunque di procedere per congetture.
Scimmiottando i poeti, cominciano
con un'invocazione. Poi, se devono parlare, poniamo, della carità,
prendono le mosse dal Nilo, fiume d'Egitto. Se invece devono trattare
del mistero della Croce, prendono opportunamente gli auspici da
Bel, drago di Babilonia. Se si preparano a predicare sul digiuno,
si rifanno ai dodici segni dello Zodiaco e, se l'oggetto del loro
discorso è la fede, premettono una lunga introduzione sulla
quadratura del cerchio. Ho sentito con le mie orecchie un esimio
stupido, scusate, volevo dire dotto, che, in una predica famosissima,
dovendo spiegare il mistero della Trinità, volendo fare cosa
che suonasse gradita all'orecchio dei teologi, e mettere al tempo
stesso in mostra la sua non comune dottrina, si dette a battere
una strada affatto nuova. Partì dalle lettere dell'alfabeto,
dalle sillabe, dal discorso, dalla concordanza del nome col verbo
e dell'aggettivo col sostantivo, tra la meraviglia dei più,
anche se non mancava qualcuno che borbottava tra sè le parole
d'Orazio: "ma a cosa approdano queste scemenze?". Finalmente
arrivò al punto di dimostrare che l'immagine di tutta la
Trinità scaturisce dai rudimenti grammaticali in modo tale
che nessun matematico potrebbe disegnarla con più evidenza
nella polvere. E nel comporre questa orazione, quel teologo principe
per otto mesi interi aveva faticato tanto, che anche oggi è
più cieco di una talpa, senza dubbio per avere consumato
tutta la forza degli occhi nella suprema tensione della mente. Eppure
non si lamenta della cecità: crede anzi di avere raggiunto
il successo con poca spesa.
Ho ascoltato un altro ottuagenario,
un teologo di tale statura che lo avresti detto Duns Scoto redivivo.
Dovendo spiegare il mistero del nome di Gesù, con mirabile
sottigliezza dimostrò che tutto quanto se ne poteva dire
era nascosto nelle lettere stesse che lo componevano. Perchè
il fatto che la sua declinazione abbia tre casi soli è segno
manifesto della divina Trinità. Il mistero ineffabile poi,
sta nel fatto che il primo caso, JESUS, termina in S, il secondo,
JESUM, in M, il terzo, JESU, in U: quelle tre lettere significano
che è sommo, medio e ultimo. Restava un mistero anche più
ostico, da risolversi col calcolo matematico. Divise la parola Jesus
in due parti uguali, in modo che una lettera, in mezzo, restasse
divisa in due. Disse che quella lettera per gli Ebrei è SYN,
che in lingua scozzese, credo, voglia dire peccato: di qui risulta
manifesto che Gesù è colui che redime il mondo dai
peccati. Per l'originalità dell'esordio tutti rimasero a
bocca aperta, i teologi in particolare, sì che per poco non
toccò loro la sorte di Niobe; mentre a me quasi successe
come al Priapo di legno di fico che, con suo grave danno, si trovò
ad assistere ai riti notturni di Canidia e di Sagana. E non a torto.
Infatti, quando mai il greco Demostene, o il latino Cicerone, sono
andati ad escogitare un simile esordio? Essi ritenevano difettoso
un proemio che troppo si scostasse dal tema: neanche i bifolchi,
che hanno la natura per guida, esordiscono così. Ma questi
dotti ritengono che il loro preambolo - così lo chiamano
- raggiunga il massimo della potenza retorica quando proprio non
ha nulla a che fare col resto del discorso, tanto che chi ascolta
meravigliato finisce col dire tra sè: "ma dove si va
a finire?". In terzo luogo commentano, tirandone fuori un raccontino,
qualche breve passo del Vangelo, ma frettolosamente e quasi incidentalmente,
mentre questo solo era il punto da sviluppare. In quarto luogo,
cambiando parte in commedia, sollevano un problema teologale, che
talvolta non sta nè in cielo nè in terra. Anche questo
ritengono conforme alle regole dell'arte. Qui finalmente assumono
piglio teologico, riempiendo gli orecchi degli ascoltatori di famosi
nomi di dottori solenni, dottori sottili, dottori sottilissimi,
dottori serafici, dottori santi, dottori irrefragabili. Allora sbandierano
davanti ad una folla ignorante sillogismi, maggiori, minori, conclusioni,
corollari, supposizioni e altre sciocchezze prive di mordente e
decisamente scolastiche. Resta ormai il quinto atto, in cui l'artista
deve rivelarsi in tutta la sua bravura. A questo punto tirano in
ballo una qualche rozza e sciocca storiella, tolta, penso, dallo
SPECULUM HISTORIALE o dai GESTA ROMANORUM, e ne offrono un'interpretazione
allegorica, tropologica, ed anagogica. Così portano a compimento
la loro Chimera, qualcosa che neppure Orazio riusciva a immaginare
quando scriveva: "aggiungete ad una testa d'uomo, ecc.".
Da non so chi, hanno poi
sentito dire che l'inizio dell'orazione deve essere basso di tono.
Perciò cominciano con una voce così bassa che neanche
loro la sentono, come se il parlare servisse quando nessuno capisce.
Hanno anche imparato che, a volte, per suscitare emozioni, è
opportuno erompere in un grido. Perciò, a metà di
un discorso concitato, all'improvviso si mettono a strillare furiosamente,
senza il minimo bisogno. Quegli scoppi di voce che nulla giustifica
ti farebbero giurare di trovarti davanti a casi da trattare con
l'elleboro. Inoltre, avendo appreso che il discorso deve animarsi
via via che procede, quando, bene o male, hanno esaurito l'inizio
delle singole parti, a un tratto adottano un tono appassionato,
anche se l'argomento è dei meno interessanti, e finiscono
col concludere dando l'impressione di essere esausti.
Avendo infine imparato che
i retori parlano del ridere, anche loro si sforzano di introdurre
qualche battuta scherzosa, con una tale grazia, per Venere, con
un tale senso d'opportunità, da farti dire che sono come
l'asino davanti alla lira. Talvolta mordono anche, ma in modo da
provocare più solletico che ferite. Nè riescono mai
ad adulare meglio di quando fanno mostra di non aver peli sulla
lingua. Infine tutto il loro stile è tale da farti giurare
che abbiano avuto per maestri i ciarlatani di piazza, restandone
però molto al disotto. Tuttavia si rassomigliano tanto da
non lasciare dubbi: o i ciarlatani hanno imparato la retorica dagli
oratori, o gli oratori dai ciarlatani.
Nondimeno, certo per opera
mia, trovano chi, ascoltandoli, crede di trovarsi davanti a Demostene
o a Cicerone in persona. Appartengono a questo genere di uditorio
soprattutto i mercanti e le donnette, le sole persone a cui si curano
di parlare in modo gradito, perchè i mercanti, opportunamente
lisciati, sono inclini, di solito, ad elargire una piccola parte
del mal tolto; mentre le donnette, oltre che per molte altre ragioni,
sono ben disposte verso la categoria, soprattutto perchè
è loro costume attingerne conforto quando vogliono sfogare
i propri malumori coniugali.
Vi rendete conto, suppongo,
di quel che mi deve questa specie di uomini, che esercitando tra
i mortali una sorta di tirannia attraverso cerimonie da burla, ridicole
sciocchezze e urla scomposte, si credono dei nuovi San Paolo e Sant'Antonio.
55. Non mi par vero di concludere,
oramai: ne ho abbastanza di questi istrioni tanto ingrati nel nascondere
ciò che mi devono, quanto empi nell'ostentare una finta pietà
religiosa.
E' giunto il tempo di trattare
un po', con tutta schiettezza, dei re e dei prìncipi di corte,
che, come si conviene a uomini liberi, mi onorano con la massima
sincerità. Se, infatti, avessero solo una briciola di senno,
che vi sarebbe di più malinconico, o di meno desiderabile,
della loro vita? Nè riterrà che valga la pena d'impadronirsi
del potere con lo spergiuro o col parricidio, chiunque consideri
l'entità del peso che grava sulle spalle di chi vuole essere
un principe sul serio. Chi assume il potere supremo deve occuparsi
degli affari pubblici, non dei propri interessi. Deve pensare esclusivamente
alla pubblica utilità; non deve scostarsi neanche di un pollice
dalle leggi, di cui è autore ed esecutore; deve assicurarsi
dell'integrità di tutti i funzionari e di tutti i magistrati.
Lui solo, agli occhi di tutti, può, a guisa di astro benefico,
giovare enormemente alle cose di quaggiù coi suoi costumi
senza macchia, oppure, come letale cometa, trarle all'estrema rovina.
I vizi degli altri non sono altrettanto conosciuti e non si propagano
tanto. Ma se il principe, con la posizione che occupa, si scosta
appena dalla retta via, subito la corruzione si diffonde contaminando
moltissimi uomini. Inoltre poichè la condizione del principe
porta con sè parecchie cose che di solito inducono a tralignare
piaceri, libertà, adulazione, lusso - tanto più attentamente
egli deve stare in guardia, se non vuole venir meno al proprio compito.
Infine, per non parlare di insidie, odi, e altri pericoli o timori,
gli sta sopra la testa quel vero Re che quanto prima gli chiederà
ragione anche della colpa più lieve, e tanto più severamente
quanto più prestigioso fu il suo imperio. Se il principe
riflettesse su queste cose e su moltissime altre del genere - e
ci rifletterebbe se avesse senno - non dormirebbe, credo, sonni
tranquilli, nè riuscirebbe a gustare il cibo.
Col mio aiuto, i prìncipi
lasciano, ora, tutti questi motivi d'affanno nelle mani degli Dèi,
e se la spassano porgendo orecchio solo a chi sa dire cose gradevoli,
perchè una punta d'ansia non abbia mai a levarsi dal fondo
del cuore. Ritengono di avere compiuto in ogni suo aspetto il dovere
di un principe, se vanno sempre a caccia, se allevano bei cavalli,
se mettono in vendita per trarne un utile magistrature e prefetture,
se ogni giorno escogitano nuovi stratagemmi per alleggerire i cittadini
delle loro sostanze, facendole confluire nel loro tesoro privato:
ma trovando dei pretesti, tanto da conferire una qualche apparenza
di giustizia anche alla peggiore iniquità. E per conquistare
comunque le simpatie popolari aggiungono qualche parola di adulazione.
Dovete immaginare un uomo, come se ne vedono a volte, ignaro delle
leggi, quasi nemico del pubblico bene, tutto preso dai suoi interessi
privati, dedito ai piaceri, con un'autentica avversione per la cultura,
la libertà e la verità, che non si cura minimamente
della salvezza dello Stato, che adotta come unità di misura
le proprie voglie e il proprio tornaconto. Mettetegli al collo una
collana d'oro, simbolo della presenza in lui di tutte le virtù
riunite; mettetegli in testa una corona ornata di gemme che lo richiami
al suo dovere di superare gli altri in tutte le virtù eroiche.
Dategli lo scettro che simboleggia la giustizia e la cristallina
purezza dell'animo, e infine la porpora a significare il suo straordinario
amore per lo Stato. Se un principe paragonasse questi ornamenti
simbolici col suo genere di vita, credo che finirebbe col provare
solo vergogna della sua pompa, e col temere che qualche critico
salace non si prendesse gioco di lui volgendo in beffa questo apparato
scenico.
56. Che dirò dei cortigiani
più segnalati? Benchè nulla vi sia di più strisciante,
di più servile, di più sciocco, di più spregevole
di loro, vogliono tuttavia essere ovunque al primo posto. In una
cosa sola sono modesti all'estremo: paghi di portarsi addosso oro,
gemme, porpora ed altre insegne della virtù e della sapienza,
lasciano sempre agli altri il privilegio di praticarle. Si ritengono
molto fortunati perchè possono chiamare "mio signore"
il re, perchè hanno imparato un saluto di tre parole, perchè
sanno intercalare titoli onorifici: Serenità, Maestà,
Magnificenza; perchè sono abilissimi nel deporre ogni pudore
quando si tratta di ricorrere a complimenti adulatori. Queste, infatti,
sono le arti di un vero nobile, di un vero uomo di corte. Del resto,
se vai a guardare più da vicino il loro costume di vita,
troverai degli autentici Feaci, dei pretendenti di Penelope - il
resto del verso lo conoscete, e l'Eco ve lo ripete meglio di me.
Dormono fino a mezzogiorno, mentre un pretonzolo stipendiato aspetta
accanto al letto per celebrare la messa alla svelta quando ancora
sonnecchiano. Poi la colazione e, a mala pena terminata, è
già ora di pranzo. Dopo pranzo i dadi, gli scacchi, le lotterie,
i buffoni, i parassiti, le cortigiane, i giochi, le insulsaggini.
Nel frattempo un alternarsi di merende. Di nuovo a tavola, si cena;
a questa seguono i brindisi, non uno solo, per Giove. E così,
senz'ombra di noia, passano le ore, i giorni, i mesi, gli anni,
i secoli. Io stessa, a volte, mi allontano col voltastomaco quando
li vedo, quei magnanimi, in mezzo alle donne, ognuna delle quali
si crede tanto più vicina all'Olimpo quanto più lunga
ha la coda, mentre i grandi fanno a gomitate per mostrarsi più
vicini a Giove, e ognuno tanto più è beato quanto
più pesante ha la catena al collo, segno manifesto, non solo
di ricchezza, ma anche di robustezza.
57. Già da un pezzo
i sommi pontefici, i cardinali ed i vescovi hanno preso con impegno
a modello il genere di vita dei prìncipi, e con un successo
forse maggiore. Certo, se uno riflettesse sul significato della
veste di lino, splendida di niveo candore, simbolo d'una vita senza
macchia; e pensasse a quello della mitra a due punte riunite in
un solo nodo, a indicare una perfetta conoscenza del Vecchio e del
Nuovo Testamento; o delle mani coperte dai guanti, segno della purezza,
immune da ogni umano cedimento, con cui vengono somministrati i
sacramenti; se si chiedesse che vuol dire il pastorale, simbolo
della cura estrema con cui si veglia sul proprio gregge; che cosa
la croce che precede indicando la vittoria su tutte le umane passioni;
se, dico, uno riflettesse a queste cose, e a molte altre del genere,
che vita sarebbe la sua, piena di malinconie e di affanni! Bene
fanno quelli che pensano soltanto ad ingozzarsi, e la cura del gregge,
o la rimettono a Cristo medesimo, o la scaricano su coloro che chiamano
fratelli o vicari. Del significato del loro nome di vescovi neppure
si ricordano: vescovo vuol dire fatica, preoccupazione, sollecita
premura. Vescovi sono sul serio nell'arraffare quattrini: in questo
la loro vigilanza è tutta occhi.
58. Altrettanto dicasi dei
cardinali, che dovrebbero ricordarsi che sono i successori degli
Apostoli, e che da loro si esigono le stesse opere: non padroni,
ma amministratori dei beni spirituali, di cui tra breve dovranno
rendere conto con la massima precisione. Riflettessero un po' anche
al loro paludamento e si chiedessero: che significa il candore della
cotta se non estrema e rara purezza di vita? Che cosa la porpora
che la cotta ricopre, se non ardentissimo amore di Dio? Che cosa
l'ampio mantello che con le sue pieghe fluenti ricopre tutta la
cavalcatura di sua Eminenza, e che basterebbe a coprire anche un
cammello? Non significa forse la carità che ovunque si diffonde
per venire in aiuto a tutti, cioè per insegnare, esortare,
consolare, rimproverare, ammonire, risolvere i conflitti e per opporsi
ai prìncipi malvagi? Non significa il generoso sacrificio,
non solo delle proprie ricchezze, ma anche del proprio sangue, per
amore del gregge? A che scopo le ricchezze, se i cardinali fanno
le veci degli Apostoli, che erano poveri? Se riflettessero su queste
cose, dico, terrebbero poco alla carica: deporla sarebbe un piacere;
oppure si sobbarcherebbero una vita tutta presa da cure travagliate,
alla maniera degli antichi Apostoli.
59. Ora è la volta
dei sommi pontefici, che fanno le veci di Cristo. Nessuno più
di loro si troverebbe a soffrire, se tentassero di imitarne la vita:
povertà, travagli, dottrina, croce, disprezzo del mondo;
se pensassero al loro nome PAPA, cioè padre, e alla loro
qualifica di SANTISSIMO! Chi mai spenderebbe tanto per comprarsi
quel posto da difendere poi con la spada, col veleno, con tutte
le forze? A quanti vantaggi dovrebbero dire addio, se la saggezza
riuscisse appena a farsi sentire! Ma che dico, saggezza? Dovrei
dire un grano di quel sale menzionato da Cristo. Addio a tante ricchezze,
a tanti onori, e a tanto potere, a tante vittorie, a tante cariche,
a tante dispense, a tante imposte, a tante indulgenze, e a tanti
cavalli, muli, servi e piaceri. Guardate un po' che mercato, che
razza di messe rigogliosa, che mare di ricchezze ho concentrato
in poche parole! Al loro posto veglie, digiuni, lacrime, preghiere,
prediche, studio, sospiri e mille gravose occupazioni del genere.
Ancora - particolare non trascurabile - sarebbero ridotti alla fame
tanti scrivani, copisti, notai, avvocati, promotori, segretari,
mulattieri, palafrenieri, banchieri, ruffiani - e stavo per aggiungere
un'espressione più sguaiata, ma temo che offenda l'orecchio,
insomma, una così folta schiera che costituisce l'onere -
è un LAPSUS, volevo dire l'onore - della curia romana. Sarebbe
proprio inumano, anzi un delitto abominevole! ma sarebbe molto peggio
riportare al bastone e alla bisaccia quei sommi prìncipi
della Chiesa, che sono la vera luce del mondo.
Ora, se fatiche ci sono,
si lasciano a Pietro e a Paolo che di tempo libero ne hanno tanto,
e si mantengono per sè la gloria e il piacere, quando ci
sono. Così, col mio aiuto, non c'è quasi nessuno che
più di loro faccia, in perfetta tranquillità, una
gran bella vita; convinti di avere assolto in pieno i doveri verso
Cristo, se adempiono alla loro funzione di vescovi con un apparato
rituale che ha movenze da palcoscenico, con cerimoniali e profusione
di titoli: beatitudine, reverenza, santità; e benedizioni
e anatemi. Non si usa più far miracoli: roba d'altri tempi.
Insegnare ai fedeli è faticoso; interpretare le Sacre Scritture
è lavoro da farsi a scuola; pregare è una perdita
di tempo; spargere lacrime è misero e femmineo; vivere in
povertà è spregevole. Turpe la sconfitta e indegna
di chi a mala pena ammette il re al bacio dei suoi piedi beati:
infine, spiacevole la morte, e infamante la morte sulla croce.
Rimangono solo le armi e
le "dolci benedizioni" di cui parla san Paolo, e di cui
fanno uso con tanta larghezza: interdetti, sospensioni, condanne
aggravate, anatemi, esposizione di ritratti a titolo di vergogna,
e quella tremenda folgore con cui, a un cenno del capo, mandano
le anime dei mortali all'inferno e oltre. Di quella folgore, i santissimi
padri in Cristo, e di Cristo vicari, si servono col massimo della
violenza, soprattutto contro coloro che, per diabolico impulso,
tentano di rimpicciolire e rosicchiare il patrimonio di Pietro.
Benchè le parole dell'Apostolo nel Vangelo siano: "Abbiamo
abbandonato tutto e ti abbiamo seguito", essi identificano
il patrimonio di Pietro con i campi, le città, i tributi,
i dazi, il potere. E mentre, accesi dall'amore di Cristo, combattono
per queste cose col ferro e col fuoco, non senza grandissimo spargimento
di sangue cristiano, credono di difendere apostolicamente la Chiesa,
sposa di Cristo, annientando da valorosi quelli che chiamano i nemici.
Come se la Chiesa avesse nemici peggiori dei pontefici empi; di
Cristo non fanno parola: fosse per loro, svanirebbe nell'oblio;
legiferando all'insegna dell'avidità, lo mettono in catene;
con le loro interpretazioni forzate ne alterano l'insegnamento;
coi loro turpi costumi lo uccidono.
Poichè la Chiesa cristiana
è stata fondata, rafforzata e ingrandita col sangue, ora,
come se Cristo fosse morto lasciando i fedeli senza una protezione
conforme alla sua legge, governano con la spada, e, pur essendo
la guerra una cosa tanto crudele da convenire alle belve più
che agli uomini, tanto pazza che anche i poeti hanno immaginato
fossero le Furie a scatenarla, così rovinosa da portare con
sè la totale corruzione dei costumi, tanto ingiusta da offrire
ai peggiori predoni la migliore occasione di affermarsi, tanto empia
da non avere nulla in comune con Cristo, tuttavia, trascurando tutto
il resto, fanno solo la guerra. Si possono vedere vecchi decrepiti
che, inalberando un vigoroso spirito giovanile, non si sgomentano
davanti alle spese, non cedono alle fatiche, non indietreggiano
di un pollice se si trovano a mettere a soqquadro le leggi, la religione,
la pace, I'intero genere umano. Nè mancano colti adulatori,
pronti a chiamare questa evidente follia zelo, pietà, fortezza,
escogitando stratagemmi che permettono d'impugnare il ferro mortale
e di immergerlo nelle viscere del fratello senza venir meno a quella
suprema carità che secondo il dettato di Cristo un cristiano
deve al suo prossimo.
60. Una cosa, continuo a
chiedermi: certi vescovi tedeschi che, andando più per le
spicce, tralasciando il culto, le benedizioni e altre cerimonie
del genere, si comportano addirittura da satrapi, fino a considerare
una specie di debolezza, e senz'altro una vergogna per un vescovo,
rendere la valorosa anima a Dio altrove che su un campo di battaglia,
sono stati loro a offrire il modello di un tale comportamento, o
lo hanno a loro volta imitato?
Ma ormai la massa dei sacerdoti,
considerando peccaminoso venire meno alla santità di vita
dei presuli, levando il grido di guerra si dà a combattere
per le dovute decime con spade, frecce, sassi, e armi di ogni specie!
e quale accortezza nel tirare fuori da vecchi documenti qualcosa
con cui impaurire il popolino e convincerlo che il suo debito va
al di là delle decime! Nè intanto ai sacerdoti vengono
in mente i molti passi ovunque ricorrenti sui doveri che, per parte
loro, essi hanno verso il popolo. Nemmeno la tonsura basta come
monito: hanno dimenticato che il sacerdote, libero da tutti gli
appetiti del mondo, deve pensare soltanto alle cose del cielo. Sono
gente buffa: sostengono di aver fatto tutto il loro dovere quando
hanno borbottato alla bell'e meglio le solite giaculatorie, e io,
per Ercole, mi meraviglio che un qualche Dio le ascolti o le intenda,
perchè nemmeno loro sono capaci di udirle o di intenderle,
pur gridandole con quanto fiato hanno in corpo.
C'è un punto, però,
che i sacerdoti hanno in comune coi laici; entrambi attentissimi
ad accumulare guadagni sono sempre al corrente delle vie da seguire.
Se poi c'è un peso da portare, prudentemente lo scaricano
sulle spalle altrui, e lo fanno passare di mano in mano, in una
sorta di gioco a palla. Come i prìncipi laici, delegano a
vicari, settore per settore, le funzioni di governo, e il vicario,
a sua volta, ricorre a un vicario in sottordine; così, per
modestia, lasciano al popolo la cura di tutto quanto riguarda la
religione. Il popolo la scarica su quelli che chiama ecclesiastici,
come se per parte sua non avesse nulla a che fare con la Chiesa:
pare che i voti pronunciati al battesimo non contino nulla. A loro
volta, i sacerdoti che si denominano secolari, come se appartenessero
al mondo più che a Cristo, scaricano il fardello sul clero
regolare; il clero regolare sui monaci; i monaci di meno stretta
osservanza su quelli di osservanza più rigida; gli uni e
gli altri sui mendicanti, e i mendicanti sui certosini, i soli presso
cui, sepolta, si nasconde la pietà, ma così nascosta
che a mala pena si può scorgerla.
Così fanno anche i
pontefici: diligentissimi nel rastrellare soldi, affidano ai vescovi
i gravami più strettamente apostolici; i vescovi li affidano
ai parroci; i parroci ai vicari; i vicari ai frati mendicanti, che,
a loro volta, li rimandano a coloro che tosano la lana delle pecore.
61. Ma io, qui, non mi propongo
di passare in rassegna i costumi di pontefici e sacerdoti; non vorrei
avere l'aria di comporre una satira, mentre è il mio elogio
che pronuncio; nè vorrei si credesse che, mentre elogio i
cattivi prìncipi, io biasimi i buoni. Ho parlato brevemente
di queste cose per mettere in chiaro che nessuno al mondo può
vivere felicemente, se non è iniziato ai miei misteri, e
se non ha me dalla sua.
Come mai, infatti, la stessa
dea di Ramnunte, signora delle umane sorti, a tal punto va d'accordo
con me da avere giurato eterna inimicizia a questi sapienti, mentre
ai folli ha donato ogni bene anche nel sonno? Voi conoscete il famoso
Timoteo, che di qui ha preso anche il soprannome, ed il proverbio:
"anche dormendo piglia pesci". C'è anche l'altro
detto: "la civetta vola per lui". Invece, altri sono i
proverbi che si adattano ai sapienti: "nato sotto cattiva stella";
"ha il cavallo di Seio e l'oro di Tolosa". Smetto le citazioni:
non vorrei avere l'aria di saccheggiare la raccolta del mio Erasmo.
Per tornare in argomento:
la Fortuna ama gli imprudenti, gli audaci, quelli che adottano il
motto "il dado è tratto". La saggezza, invece,
rende piuttosto timidi; perciò comunemente vedete questi
sapienti impegnati a combattere con la povertà, la fame,
il fumo; li vedete vivere dimenticati, senza prestigio, senza simpatie:
mentre gli stolti, ben forniti di soldi, raggiungono le alte cariche
dello Stato e, per dirla in breve, prosperano in tutti i sensi.
Infatti, se si ripone la felicità nel favore dei prìncipi,
nell'entrare a far parte della cerchia di questi miei fedeli simili
a Dèi ingioiellati, che c'è di più inutile
della sapienza, anzi di più aborrito presso gente del genere?
Se si vuole arricchire, che cosa può guadagnare un mercante
attenendosi alla sapienza? Se terrà in qualche conto gli
scrupoli dei sapienti sul latrocinio e l'usura, avrà ripugnanza
a spergiurare; colto a mentire, arrossirà. Se si desiderano
onori o benefizi ecclesiastici, un asino o un bue potrà aggiudicarseli
prima del sapiente. Se è il piacere che ti muove, le fanciulle,
che in questa storia hanno il posto d'onore, si danno di tutto cuore
agli stolti, mentre hanno orrore del sapiente e lo fuggono come
fosse uno scorpione. Infine, chiunque si ripromette una vita in
qualche misura lieta, comincia con l'escludere il sapiente, tollerando
piuttosto qualunque altro animale. In breve, da qualunque parte
tu ti volga, presso pontefici, prìncipi, giudici, magistrati,
amici, nemici, grandi e piccoli, tutto si ottiene col danaro alla
mano; ma il sapiente disprezza il danaro, e perciò, di solito,
da lui ci si tiene lontani con la massima cura.
62. Ed ora, benchè
sia impossibile esaurire il mio elogio, bisogna pure concludere
il discorso. Perciò smetterò di parlare, ma non senza
avere prima dimostrato in poche parole che non sono mancate grandi
autorità a glorificarmi, sia con gli scritti che con le azioni;
e questo perchè qualcuno non sospetti scioccamente che sia
io sola a compiacermi di me stessa, e perchè i legulei non
mi accusino di non produrre documenti. Perciò, prendendo
esempio da loro, allegherò le prove senza preoccuparmi che
siano pertinenti.
In primo luogo, tutti sono
persuasi della verità di un notissimo proverbio: "Quando
una cosa manca, ottimo sistema è fingere che ci sia".
Perciò è bene cominciare con l'insegnare ai ragazzi
questo verso: "Fingersi folli a tempo e luogo è somma
sapienza". Potete rendervi conto da voi di quale gran dono
sia la follia, se anche la sua ombra fallace, e la sua sola imitazione,
meritano dai dotti così grande lode. Con franchezza anche
maggiore quel famoso "porco lucido e pingue del gregge di Epicuro"
prescrive di "mescolare la follia alla saggezza", ma,
aggiunge, "solo per poco": e qui si sbaglia. Dice altrove:
"Bella cosa folleggiare a tempo e luogo". E ancora, in
altra occasione: "Preferisce apparire pazzo e privo di iniziativa,
piuttosto che mostrarsi assennato tenendosi la rabbia in corpo".
Già in Omero, Telemaco, che il poeta loda sotto tutti i rapporti,
è detto a più riprese privo di senno, e spesso e volentieri
i tragici indicano in tal modo, quasi fosse di buon augurio, fanciulli
e adolescenti. Di che ci parla il divino poema dell'ILIADE? solo
delle ire di re folli e di popoli folli. E quale lode più
alta del detto ciceroniano "Tutto il mondo è pieno di
pazzi"? Chi, infatti, non sa che qualunque bene, a quanti più
si estende, tanto più vale?
63. Ma forse per i cristiani
l'autorità di costoro non ha gran peso. Perciò, se
credete, possiamo poggiare, o, come dicono i dotti, fondare le nostre
lodi sulle Sacre Scritture, cominciando col chiedere il permesso
ai teologi. Poi, dato che un'ardua impresa ci attende, e che forse
non sarebbe giusto, vista la lunghezza del viaggio, invocare di
nuovo le Muse dall'Elicona - e per una cosa poi che poco le interessa
- credo migliore partito, mentre faccio il teologo procedendo per
uno spinoso calle, scegliere l'anima di Scoto, spinosa più
di ogni istrice e porcospino, perchè dalla sua Sorbona per
un po' si trasferisca nel mio petto, per poi migrare dove preferisce,
magari in un corvo. Volesse il cielo che potessi mutare aspetto
e comparire nelle vesti del teologo! Temo invece che mi si creda
colpevole di furto, come se per farmi una così bella preparazione
teologica alla chetichella avessi saccheggiato i tesori dei maestri.
Ma che c'è da stupirsi, se nella mia lunga e intima consuetudine
con i teologi, qualcosa ho imparato? Persino Priapo, il dio di legno
di fico, sentendo leggere il padrone, aveva finito col tenere a
mente qualche parola greca, e il gallo di Luciano, per la lunga
convivenza con gli uomini, ne conosceva a menadito il linguaggio.
Torniamo in argomento. Scrive
l'Ecclesiaste nel primo capitolo [I, 15]: "Infinito è
il numero degli stolti". E, parlando di numero infinito, non
sembra forse intendere tutti gli uomini, a eccezione di pochissimi
che probabilmente nessuno ha mai visto? Con più chiarezza
si esprime Geremia, quando nel capitolo decimo [X, 15] dice: "Ogni
uomo è reso stolto dalla sua sapienza". Attribuisce
la sapienza soltanto a Dio, e lascia la stoltezza a tutti gli uomini
[X, 7 e 12]. E ancora, poco prima [9, 23]: "L'uomo non riponga
nella sapienza il suo vanto". Ma perchè, ottimo Geremia,
non vuoi che l'uomo riponga nella sapienza il suo vanto? "Perchè,
risponderebbe certamente, l'uomo non ha la sapienza."
Ritorniamo all'Ecclesiaste.
Quando esclama [1, 2; 12, 8]: "Vanità delle vanità;
tutto è vanità", che altro vuol dire, secondo
voi, se non che la vita umana è tutta un gioco della follia?
Con questo dava senza dubbio il suo consenso a quel detto di Cicerone,
a buon diritto famoso, che abbiamo riferito poc'anzi: "Tutto
il mondo è pieno di stolti". Tornando al saggio Ecclesiastico,
quando diceva [27, 12]: "Lo stolto muta come la Luna; il sapiente,
come il Sole, non muta", voleva dire semplicemente che tutti
i mortali sono stolti, e che il titolo di sapiente spetta solo a
Dio. La Luna viene identificata dagli interpreti con la natura umana,
il Sole, fonte di ogni luce, con Dio. Con ciò si accorda
quanto Cristo stesso nega nel Vangelo [Matteo, 19, 17]: che qualcuno
possa chiamarsi buono, eccetto Dio. Se è stolto chiunque
non è sapiente, e se chi è buono, stando agli Stoici,
è anche sapiente, la stoltezza, di necessità, è
retaggio di tutti gli uomini. Si legge ancora nel capitolo quindicesimo
[21] di Salomone: "Lo stolto si bea della sua stoltezza";
e con questo chiaramente si ammette che senza la stoltezza la vita
non ha nulla da offrire.
Alla stessa conclusione approda
il detto: "Chi più sa, più soffre; chi più
conosce, più spesso s'indigna [Eccl. 1, 18]". La stessa
cosa, quell'eccelso predicatore riconosce apertamente nel capitolo
settimo [5], quando dice: "Nel cuore dei sapienti il dolore;
nei cuori degli stolti la gioia".
Non riteneva, infatti, che
bastasse il pieno possesso della sapienza; bisognava conoscere anche
me, la follia. Se poi prestate poca fede a me, leggete le parole
che scrisse nel primo capitolo [17]: "Volsi il mio cuore ad
apprendere la saggezza e la scienza, gli errori e la follia".
E qui va notato che l'essere collocata all'ultimo posto torna a
lode della follia. L'Ecclesiaste ha scritto - e sapete che questo
è l'ordine ecclesiastico - che chi è primo per dignità
deve occupare l'ultimo posto, il che è conforme al dettato
evangelico.
Che poi la Follia è
superiore alla Sapienza lo attesta chiaramente, nel capitolo 64
[4 1, 1 8], anche l'Ecclesiastico, chiunque egli sia. Ma, per Ercole,
non riferirò le sue parole se prima non avrete collaborato
con me in una serie di appropriate risposte, come fanno nei dialoghi
di Platone gli interlocutori di Socrate. "Che cosa è
più opportuno nascondere, le cose rare e preziose, o quelle
comuni e dappoco?" Perchè tacete? Anche se cercate di
non scoprirvi, parla per voi il proverbio greco che dice della brocca
alla porta di casa, e sacrilego sarebbe rifiutarlo, perchè
lo troviamo in Aristotele, il nume dei nostri maestri. O forse qualcuno
di voi è così stolto da lasciare per la strada oro
e gemme? Non credo, per Ercole. Sono cose che riponete in nascondigli
inaccessibili, e addirittura negli angoli più segreti di
una cassaforte a tutta prova. In mezzo alla strada lasciate i rifiuti.
Perciò, se si nasconde quanto è più prezioso,
mentre si lascia in vista ciò che vale meno, la sapienza
che l'Ecclesiastico vieta di nascondere non sarà palesemente
meno pregiata della stoltezza che comanda di nascondere? Ascoltate
le sue parole testuali: "L'uomo che nasconde la sua insipienza
è migliore dell'uomo che nasconde la sua sapienza" [41,
18]. Che dire dell'ingenuo candore che le Sacre Scritture attribuiscono
allo stolto, di contro all'atteggiamento del sapiente che non crede
nessuno suo simile? Così infatti intendo le parole del decimo
[X, 3] dell'Ecclesiaste: "Ma lo stolto, quando va per la strada,
essendo lui stolto, crede che tutti lo siano". E non è
forse indizio di singolare candore supporre che tutti siano uguali
a te e, in un mondo di presuntuosi, estendere a tutti gli altri
ciò che in te c'è di buono? Perciò il gran
re Salomone non si vergognò di questa qualifica quando, nel
trentesimo capitolo [Prov. 30, 2], disse: "Sono il più
folle degli uomini". E san Paolo, il grande dottore delle genti,
scrivendo ai Corinzi [11, 23], non disdegnò la denominazione
di stolto: "Parlo, dice, da dissennato: sono io il più
dissennato". Come se, essere superato in fatto di follia, fosse
sconveniente.
Qui mi danno sulla voce certi
greculi meschini che s'ingegnano di cavare gli occhi alle cornacchie
- cioè ai teologi del nostro tempo - spargendo in giro il
fumo delle loro chiose ai sacri testi (e se il mio amico Erasmo,
che molto spesso ricordo a titolo di merito, non è l'alfa
[il primo] della schiera, certo è il beta [il secondo]).
Che razza di citazione pazzesca - dicono - proprio degna della Pazzia
in persona! L'Apostolo intendeva una cosa ben diversa dai tuoi vaneggiamenti.
Con le sue parole non cerca di farsi passare per più stolto
degli altri; ma, avendo detto in precedenza: "Sono ministri
di Cristo; e anch'io lo sono", ed essendosi così collocato,
con una punta d'orgoglio, alla pari con gli altri, rettifica: "ma
io lo sono anche di più", perchè nel ministero
del Vangelo sente di essere, non solo alla pari con gli altri Apostoli,
ma un poco al disopra. Tuttavia, volendo che l'affermazione suonasse
vera, senza peraltro urtare gli ascoltatori con un eventuale sospetto
di presunzione, adottò la follia come copertura, e disse
"parlo da dissennato", perchè sapeva che dire la
verità senza offendere nessuno è privilegio dei soli
pazzi.
Che cosa intendesse davvero
Paolo quando scrisse a quel modo, lascio che siano loro a decidere.
Io seguo i grandi teologi, grassi e grossi, e in genere molto stimati;
buona parte dei dotti, per Giove, preferisce sbagliare con loro
piuttosto che essere nel giusto con codesti trilingui. E nessuno
tiene il parere di questi greculi da quattro soldi in maggior conto
del gracchiare di un corvo, soprattutto da quando ha commentato
quel passo da maestro e da teologo un illustre teologo (per prudenza
ne taccio il nome, perchè i nostri volatili gracchianti non
si affrettino ad affibbiargli il motto greco dell'asino che suona
la lira). Con le parole "parlo da dissennato, anzi io lo sono
più di tutti", fa cominciare un nuovo capitolo e, con
insuperabile rigore dialettico, aggiunge un nuovo capoverso, interpretando
così (riporterò le sue parole, e non solo nella lettera,
ma anche nel loro significato): "parlo da dissennato, cioè,
se vi sembro folle mettendomi alla pari con gli pseudoapostoli,
anche più folle vi sembrerò ponendomi al disopra di
loro". Purtroppo quel teologo, subito dopo, quasi dimentico
di sè, cambia argomento.
64. Ma perchè mi affanno
tanto con questo solo esempio? Tutti riconoscono ai teologi il diritto
di manipolare il cielo, ossia le Sacre Scritture, tirandole in qua
e in là come un elastico, tanto è vero che in san
Paolo entrano in contraddizione parole della Scrittura che nel sacro
testo non sono affatto in contrasto (almeno se vogliamo prestare
fede a san Girolamo, che sapeva ben cinque lingue). Così,
letta per caso ad Atene la dedica di un altare, Paolo ne forzò
il significato a beneficio della fede cristiana, e, tralasciando
le altre parole, che avrebbero nuociuto al suo proposito, staccò
dal contesto solo le ultime due: "Al Dio ignoto", e anche
queste con qualche variante. La dedica esatta era, infatti, questa:
"Agli Dèi dell'Asia, dell'Europa e dell'Africa, agli
Dèi ignoti e stranieri". Penso che questi figli di teologi,
seguendone l'esempio, sopprimendo qua e là quattro o cinque
parolette e, all'occorrenza, anche alterandole, le adattino ai loro
scopi. Poco importa, poi, se le parole che precedono o quelle che
seguono non c'entrano per nulla o, addirittura, sono in contrasto.
Lo fanno con una tale impudenza, che spesso i giureconsulti sono
tratti a invidiare i teologi.
Che mai hanno più
da temere da quando quel celebre... - a momenti mi sfuggiva il suo
nome, ma di nuovo mi trattiene il proverbio greco - ha ricavato
dalla parola di Luca [22, 35-36] un principio che si accorda con
lo spirito di Cristo come il fuoco con l'acqua? Infatti, nell'ora
dell'estremo pericolo, quando i fedeli adepti si stringono di più
ai loro protettori per impegnarsi con ogni risorsa al loro fianco,
Cristo, perchè i suoi smettessero del tutto di confidare
in questo genere di aiuti, chiese loro se mai avessero sentito la
mancanza di qualche cosa, quando li aveva mandati per il mondo così
poco equipaggiati da non avere nè calzari contro le spine
e i sassi, nè bisaccia contro la fame. Avendo essi risposto
di no, che nulla era mancato, soggiunse: "Ma ora chi ha una
borsa la prenda, e altrettanto faccia con la bisaccia, e chi non
ne ha venda la sua tunica e compri una spada". Ora, dato che
tutta la dottrina di Cristo predica solo mansuetudine, tolleranza,
disprezzo del mondo, non è chi non intenda il giusto significato
di questo passo. Il proposito è di rendere i legati di Cristo
anche più inermi; non solo senza calzari e senza bisaccia,
ma anche senza tunica, nudi e liberi di tutto, affrontino la loro
missione evangelica. Non si procurino nulla, se non la spada, non
quella, però, di cui si servono predoni e parricidi per i
loro misfatti, ma la spada dello spirito, che penetra nel fondo
del cuore, che taglia via una volta per sempre tutte le passioni,
sì che nulla vi resti, salvo la pietà.
Orbene, state un po' a vedere
a quale senso riesce a piegare questo passo il nostro famoso teologo.
Secondo lui la spada è la difesa contro i persecutori, il
sacchetto, una sufficiente provvista di viveri; come se Cristo,
ritenendo di aver mandato per il mondo i suoi missionari senza provvederli
di mezzi adeguati, cambiando parere ritrattasse quanto ha predicato
in precedenza. O dimenticasse quanto aveva detto, che sarebbero
stati felici nel dolore, fatti segno a ingiurie e supplizi, non
rendendo male per male, perchè beati sono i mansueti, non
i violenti; se, dimenticando di averli esortati a seguire l'esempio
dei passeri e dei gigli, non li volesse più vedere partire
senza la spada. La comprino, a costo di vendere la tunica; meglio
nudi che disarmati! Il commentatore ritiene inoltre che il termine
spada indichi tutto ciò che può servire come arma
di difesa, e che il termine bisaccia abbracci quanto concerne i
bisogni vitali. Così l'interprete del pensiero divino fa
predicare il Cristo in croce da Apostoli armati di lance, balestre,
fionde e bombarde. Li carica di valigie, sacche e bagagli vari perchè
non abbiano mai a mettersi in viaggio senza avere debitamente pranzato.
Nè il brav'uomo è turbato neppure dal fatto che Cristo
ingiunge di rimettere subito nel fodero quella spada che aveva ordinato
di comprare a così caro prezzo, e che mai, per quel che se
ne sa, gli Apostoli hanno fronteggiato con spade e scudi la violenza
dei pagani, come avrebbero fatto se il pensiero di Cristo fosse
stato conforme a questa interpretazione.
C'è poi un altro,
e non certo l'ultimo venuto (per deferenza non ne faccio il nome)
che, basandosi sul riferimento di Abacuc [3, 7] alle tende di Madian
- "le pelli del paese di Madian saranno messe sossopra"
- ne ricava un'allusione alla pelle di san Bartolomeo scorticato.
Di recente partecipai io
stessa a una discussione teologica; lo faccio spesso. Poichè
uno dei presenti chiedeva in che conto si doveva tenere il precetto
delle Sacre Scritture secondo cui gli eretici vanno arsi sul rogo
piuttosto che non persuasi attraverso la discussione, un vecchio
dall'aspetto severo, teologo anche nel piglio, rispose molto indignato
che la legge risaliva all'apostolo Paolo che disse [A TITO, 3, 10]:
"Dopo aver tentato ripetutamente di mettere l'eretico sulla
buona strada, evitalo". E più volte tornava a dire quelle
parole, mentre erano in parecchi a chiedersi che cosa mai gli succedeva.
Finì con lo spiegare che bisognava togliere DALLA VITA (E
VITA) l'eretico. Ci fu chi rise, ma ci fu anche chi ritenne l'interpretazione
ineccepibile dal punto di vista teologico, e poichè qualcuno
continuava a protestare, intervenne un avvocato cosiddetto di Tenedo,
un'autorità irrefragabile: "State a sentire, disse.
La Scrittura dice: non lasciar vivere l'uomo malefico. Ma ogni eretico
è malefico, quindi...". Tutti i presenti ammirarono
la soluzione ingegnosa, e vi aderirono battendo forte i piedi calzati
di stivali. A nessuno venne in mente che quella legge riguardava
incantatori e maghi, detti in lingua ebraica "malefici".
Altrimenti la pena di morte dovrebbe estendersi alla fornicazione
e all'ubriachezza.
65. Sono una sciocca a volermi
dilungare su queste cose, così numerose che neanche tutti
i volumi di Crisippo e di Didimo basterebbero a contenerle. Volevo
solo farvi presente che, se tanto è stato concesso a quei
maestri di primissima grandezza, è giusto usare qualche indulgenza
a me, teologa di ben poco conto, se le mie citazioni non sono del
tutto esatte.
E ora, tornando finalmente
a Paolo, parlando di sè dice: "Voi sopportate di buon
grado i folli" [2 Cor., 11, 19]. E ancora: "Accettatemi
come un folle". E poi: "Non parlo ispirato da Dio, ma
quasi come un folle". E altrove, di nuovo: "Siamo folli
a cagione di Cristo". Avete sentito quali elogi della follia
e da quale pulpito! E che diremo di quel suo raccomandare la stoltezza
quale fonte per eccellenza necessaria in vista della salvezza? "Chi
di voi sembra sapiente, divenga stolto per essere sapiente".
In Luca [34, 25] Gesù
chiama "stolti" i due discepoli cui si era accompagnato
per la strada. Non so se ci si debba meravigliare, visto che allo
stesso Dio, San Paolo attribuisce un pizzico di follia, dicendo:
"La follia di Dio è più saggia del senno degli
uomini". [Primo Cor., 1, 25]. Origene, per certo, contesta
che questa follia sia suscettibile di essere tradotta in termini
umani, come nell'altro esempio: "La parola della croce è
follia per gli uomini che si perdono" [Primo Cor., 1, 18].
Ma perchè mai insisto
nel sostenere tutto questo con tante testimonianze? Non ce n'è
bisogno, se nei mistici salmi [68, 6] Cristo stesso dice al Padre:
"Tu conosci la mia follia". E non per caso i folli sono
sempre stati tanto cari al Signore. Per la stessa ragione, credo,
per cui i sovrani guardano con diffidente antipatia le persone troppo
intelligenti. Così accadeva a Cesare con Bruto e Cassio -
mentre di quell'ubriacone di Antonio non aveva alcun timore; così
accadeva a Nerone con Seneca e a Dionigi con Platone; mentre si
trovavano bene con gli uomini privi di acume. Allo stesso modo Cristo
costantemente detesta e condanna quei sapienti che hanno fiducia
nella propria saggezza.
Lo attesta chiaramente san
Paolo quando dice: "Dio sceglie ciò che il mondo considera
stolto", e che "Dio aveva voluto salvare il mondo attraverso
la stoltezza", perchè attraverso la saggezza non era
possibile [Primo Cor., 1]. Dio stesso lo rivela con sufficiente
chiarezza quando esclama per bocca del profeta: "Manderò
in fumo la sapienza dei sapienti e condannerò la saggezza
dei saggi".
E ancora quando Gesù
lo ringrazia perchè aveva rivelato ai piccoli, cioè
agli stolti, il mistero della salvezza che aveva celato ai sapienti.
In greco, infatti, il termine per indicare i bambini è infanti
(nèpioi) in contrapposizione ai sapienti (zofói ). Nello
stesso senso vanno intesi certi motivi ricorrenti nel Vangelo; Gesù
che fieramente si leva contro farisei, scribi e dottori e, viceversa,
la sollecita protezione che accorda al volgo ignorante. Che altro
vogliono infatti dire le parole: "Guai a voi, scribi e farisei",
se non "Guai a voi, sapienti" [Matteo, 23, 13-27; Luca,
11, 42-43]. Invece il suo rapporto con bambini, donne, pescatori,
pare fosse improntato a perfetta letizia. Anche fra le bestie Cristo
predilige le più lontane dall'astuzia della volpe. Perciò
preferì cavalcare un asino, anche se, volendo, avrebbe potuto
senza rischio cavalcare un leone. Così lo Spirito Santo è
sceso dal cielo in sembianza di colomba, non di aquila o di sparviero.
Inoltre, nelle Sacre Scritture, si ricordano un po' dappertutto
cervi, capretti, agnelli. Aggiungasi che Gesù chiama pecore
i suoi discepoli destinati a vivere in eterno. Nè c'è
animale più stupido di questo, stando anche al detto aristotelico
"indole di pecora" che, come Aristotele avverte, tratto
dalla stupidità di quell'animale, di solito si applica a
titolo ingiurioso agli stupidi e tardi. Tuttavia Cristo si professa
pastore di questo gregge; anzi egli stesso si compiacque di chiamarsi
agnello, e Giovanni Battista lo indicò con questo nome: "Ecco
l'agnello di Dio", denominazione che ricorre spesso anche nell'Apocalisse.
Di qui una clamorosa conclusione:
i mortali, anche quelli che coltivano sentimenti di pietà,
sono stolti. Lo stesso Cristo, per venire in aiuto all'umana sapienza,
lui che è la sapienza del Padre, si è fatto in qualche
modo stolto, quando, vestite le umane spoglie, si è presentato
con sembiante di uomo. Come si è fatto anche peccato per
risanarci dai peccati. Nè volle porvi altro rimedio se non
la follia della Croce, valendosi di Apostoli rozzi e ignoranti,
cui ebbe cura di predicare come ottima condizione la stoltezza distogliendoli
dalla sapienza quando li esorta a seguire l'esempio dei bambini,
dei gigli, del grano di senape, dei passerotti, esseri del tutto
privi d'intelligenza, che vivono solo affidandosi alla natura, senza
artifici, senza affanni; e quando proibisce loro di preoccuparsi
della linea da tenere davanti ai giudici e di stare all'erta per
cogliere i momenti opportuni: non devono cioè confidare nella
propria saggezza, ma mettersi totalmente nelle sue mani. Allo stesso
principio s'ispira Dio, architetto del mondo, quando proibisce di
assaggiare il frutto dell'albero della sapienza, quasi che la scienza
fosse il veleno della felicità. San Paolo, d'altra parte,
condanna la scienza apertamente come fonte di presunzione e di rovina.
E credo che san Bernardo si richiamasse a lui identificando il monte
che Lucifero aveva scelto per sua sede col monte della scienza.
Forse c'è anche un
altro argomento che non dovrei tralasciare: la stoltezza trova grazia
presso gli Dèi; al sapiente non si perdona, tanto è
vero che chi implora il perdono, anche se ha peccato con cognizione
di causa, adduce a pretesto la stoltezza e di essa si fa usbergo.
Così infatti, se la memoria non mi tradisce, nei NUMERI [12,
11] Aronne cerca di stornare dalla moglie la punizione del Signore:
"Ti prego, Signore, non giudicarci colpevoli: abbiamo peccato
per mancanza di discernimento". E anche Saul di fronte a David
si discolpa così: "E' chiaro, dice, che ho agito da
sciocco". E David, a sua volta, cerca di propiziarsi il Signore
con queste parole: "Ti prego, Signore, non accusare il tuo
servo d'iniquità; ho agito da sciocco", come se non
potesse ottenere il perdono se non appellandosi alla sua stoltezza
e alla sua insipienza. Prova di eccezionale efficacia, Cristo in
croce, quando pregò per i suoi nemici, portò come
unica scusa l'ignoranza: "Padre, perdona loro perchè
non sanno quello che fanno" [Luca 23, 24]. Nello stesso senso
Paolo scriveva a Timoteo: "Ho ottenuto la misericordia divina
perchè nella mia incredulità ho agito per ignoranza"
[Primo Tim. 1, 13]. Che vuol dire "ho agito da ignorante",
se non che aveva agito per stoltezza, non per malizia? Che significa
"perciò ho ottenuto misericordia", se non che non
l'avrebbe ottenuta se la sua stoltezza non avesse deposto in suo
favore? Fa al caso nostro il mistico salmista che non mi è
venuto in mente al momento giusto: "Non ricordare le colpe
della mia gioventù e le mie ignoranze" [PS. 24, 7].
Come avete sentito, adduce
due argomenti: la giovane età - a cui sempre io, la Follia,
mi accompagno - e le "ignoranze", ricordate al plurale
per fare intendere la grande forza della follia.
66. Per non dilungarmi all'infinito
cercherò di riassumere per sommi capi. Se la religione cristiana
sembra avere qualche parentela con la follia, con la sapienza non
ha proprio nulla a che fare. Desiderate averne una prova? Guardate
in primo luogo al fatto che bambini, vecchi, donne e anime semplici
godono più degli altri delle funzioni religiose, e perciò,
per puro istinto, sono sempre i più vicini agli altari. Vedete
inoltre che i primi fondatori della religione, con mirabile slancio,
scelsero le vie della semplicità, mentre furono nemici acerrimi
delle lettere.
Infine non c'è pazzo
che sembri più pazzo di coloro che una volta per sempre siano
stati conquistati in pieno dal fuoco della carità cristiana:
a tal punto sono prodighi dei loro beni, trascurano le offese, tollerano
gli inganni, non fanno distinzione tra amici e nemici, hanno orrore
del piacere; digiuni, veglie, lacrime, fatiche, ingiurie, sono il
loro nutrimento; per nulla attaccati alla vita, desiderano solo
la morte; per dirla in breve, sembrano affatto insensibili alle
esigenze del senso comune, come se il loro animo vivesse altrove,
e non nel loro corpo. E che altro è questo se non follia?
Non dobbiamo dunque meravigliarci se gli Apostoli sembrarono ubriachi
di vino dolce, se Paolo sembrò pazzo al giudice Festo.
Comunque, visto che una volta
tanto ho vestito la pelle del leone, andrò più in
là mettendo in chiaro un'altra cosa: quella beatitudine che
i cristiani cercano di conquistare a così caro prezzo, altro
non è se non una forma di follia e di stoltezza. Non badate
alle parole: non c'è intenzione d'offesa; considerate piuttosto
i fatti. C'è in primo luogo un punto di contatto fra cristiani
e platonici: entrambi ritengono che l'anima, irretita nei vincoli
del corpo, trovi nella sua materia un impedimento alla contemplazione
e alla fruizione del vero. Perciò Platone definisce la filosofia
una meditazione sulla morte, perchè, a somiglianza della
morte, distoglie la mente dalle cose visibili e corporee. Perciò,
finchè l'anima fa buon uso degli organi del corpo, viene
detta sana; ma quando, spezzati i vincoli, tenta d'affermarsi in
piena libertà, e viene quasi meditando una fuga dal carcere
corporeo, allora si parla di follia. Se per caso la cosa accade
per malattia, per una qualche affezione organica, allora è
pazzia conclamata. Tuttavia vediamo che anche uomini di questa specie
predicono il futuro, sanno lingue e lettere che non hanno mai appreso
in passato, ostentano qualcosa che appartiene decisamente all'ambito
del divino.
Non c'è dubbio: questo
accade perchè la mente, libera in parte dall'influenza del
corpo, comincia a sprigionare la sua forza nativa. Credo che per
la stessa ragione qualcosa di simile accada nel travaglio della
morte imminente: gli agonizzanti, come ispirati, parlano un linguaggio
profetico.
Se ciò accade nell'ardore
della fede, si tratta forse di un altro genere di follia, ma così
vicina alla ordinaria follia che molta gente la giudica pazzia pura,
e tanto più in quanto riguarda un pugno di disgraziati che
in tutto il modo di vivere si scostano dal resto dell'umano consorzio.
Qui, di solito, credo si verifichi il caso del mito platonico: di
quelli che incatenati in fondo alla caverna vedono l'ombra delle
cose, e del prigioniero che, fuggito di là, tornando poi
nell'antro afferma di avere contemplato le cose reali, e che loro
s'ingannano di molto, convinti come sono che nient'altro esista
se non delle misere ombre. Il saggio compiange e deplora la follia
di coloro che sono irretiti in così grave errore; ma quelli,
a loro volta, ridono di lui come se delirasse e lo cacciano via.
Allo stesso modo il volgo ammira soprattutto le cose in cui la materia
prevale, e quasi crede che siano le sole ad esistere. Chi pratica
la religione, invece, quanto più una cosa è attinente
al corpo tanto più la trascura ed è tutto preso dalla
contemplazione dell'invisibile. Gli uni mettono al primo posto le
ricchezze, al secondo le comodità relative al corpo, all'ultimo
l'anima: che, dopo tutto, i più neanche credono esista perchè
l'occhio non può scorgerla. Gli altri, invece, in primo luogo
tendono con tutte le loro forze a Dio, il più semplice degli
esseri; in secondo luogo a qualcosa che ancora resta nella sua cerchia:
ossia all'anima, che più di tutto è vicina a Dio;
trascurano la cura del corpo, disprezzano le ricchezze e ne rifuggono
come da cosa immonda. Se poi non possono esimersi dall'occuparsene,
ne sentono il peso e la noia; hanno, ed è come se non avessero;
posseggono, ed è come se non possedessero. Nei singoli casi
ci sono anche molte altre differenze di gradazione. Prima di tutto,
benchè tutti i sensi abbiano un legame col corpo, alcuni
sono più corpulenti, come il tatto, l'udito, la vista, I'olfatto,
il gusto; altri più distaccati dal corpo, come la memoria,
l'intelletto, la volontà.
Dato che la potenza dell'anima
risulta maggiore là dove concentra il suo sforzo, le persone
religiose, poichè tutta la forza dell'animo loro si volge
alle cose lontane per eccellenza dai sensi più corposi, subiscono
in questi una sorta di ottundimento. Il volgo, invece, in essi raggiunge
il massimo della potenza, il minimo negli altri. Si spiega così
ciò che raccontano sia accaduto a certi Santi, di bere olio
invece di vino.
E anche fra le passioni dell'anima
alcune sono più legate agli aspetti carnali del corpo, come
l'impulso sessuale, il bisogno di cibo e di sonno, l'ira, la superbia,
l'invidia: chi coltiva sentimenti di pietà le respinge senza
remissione; il volgo, al contrario, ne fa la fondamentale ragione
di vita. Vi sono poi dei sentimenti intermedi, quasi naturali, come
l'amore di patria, l'affetto per i figli, per i genitori, per gli
amici. Il volgo ne riconosce in qualche misura l'importanza, ma
quanti vivono secondo pietà cercano di sradicare dall'animo
anche questi, a meno che non raggiungano quel supremo livello spirituale
per cui si ama il padre, non in quanto padre - che ha generato,
infatti, se non il corpo? e, alla fine, anche questo è opera
di Dio padre - ma in quanto è buono e porta in sè
il lume di quella Mente che sola chiamano sommo bene, e al di fuori
della quale sostengono che nulla merita di essere amato o desiderato.
Con questo medesimo criterio
giudicano di tutti i doveri: tutto ciò che è visibile,
se non è da disprezzarsi senz'altro, va tenuto in molto minor
conto dell'invisibile. Dicono che anche nei sacramenti e nelle pratiche
religiose si possono distinguere corpo e spirito. Per esempio, nel
digiuno non fanno gran conto dell'astinenza dalla carne e dal pasto,
che il volgo considera invece digiuno stretto; bisogna che intervenga
anche un controllo delle passioni, che si conceda meno del solito
ai moti d'ira o di superbia, perchè lo spirito già
meno gravato dal corpo si innalzi al godimento dei beni celesti.
Altrettanto dicasi della Eucaristia. Benchè non vada sottovalutato
l'aspetto cerimoniale, questo per se stesso giova poco, o addirittura
è pernicioso in mancanza dell'elemento spirituale, cioè
del contenuto rappresentato da quei segni visibili. Si rappresenta
la morte di Cristo; i mortali devono parteciparvi come attori vincendo,
sopprimendo, starei per dire seppellendo, le passioni corporee per
risorgere a nuova vita, per fare, in totale comunione fra loro,
tutt'uno con lui.
Queste le azioni, questi
i pensieri dell'uomo di fede. Il volgo, al contrario, crede che
il sacrificio sia tutto nello stare quanto più è possibile
accanto agli altari, ascoltando il rumore delle parole e badando
ad altre quisquilie relative al rito.
Quanto al pio, non solo nelle
cose che abbiamo portato a esempio, ma in ogni occasione, rifugge
da ciò che è legato al corpo, tutto preso dall'eterno,
dall'invisibile, dalla realtà spirituale. Perciò,
dato il loro radicale disaccordo su tutto, accade che uomini di
pietà e volgo a vicenda si prendano per matti. Ma, secondo
me, l'appellativo si addice piuttosto alla gente pia che non al
volgo. E ciò risulterà più chiaro se, come
ho promesso, dimostrerò in poche parole che quel sommo premio
altro non è se non una forma di follia.
67. Considerate in primo
luogo che qualcosa di simile già vagheggiò Platone
quando scrisse che il delirio degli amanti è il più
felice di tutti. Infatti chi ama ardentemente non vive in se stesso,
ma in colui che ama, e quanto più si allontana da sè
e si trasferisce in lui tanto più gode. E quando l'animo
si propone di uscire dal corpo e non usa debitamente dei suoi organi,
a buon diritto senza dubbio si può parlare di delirio. Altrimenti
che cosa vogliono dire le comuni espressioni: "non è
in sè", o anche "torna in te stesso", e "è
tornato in se stesso"? D'altra parte quanto più è
perfetto l'amore, tanto più è grande, tanto più
beato il delirio. Quale sarà dunque quella vita celeste che
fa tanto sospirare le anime pie? Lo spirito, che è il più
forte, sarà vittorioso, e assorbirà il corpo tanto
più facilmente perchè già in vita lo avrà
mortificato e indebolito in vista di una simile trasformazione.
Poi sarà a sua volta mirabilmente assorbito da quella somma
Mente la cui potenza è infinitamente superiore. A questo
punto l'uomo sarà interamente fuori di sè, e solo
per questo felice, perchè, essendo fuori di sè, subirà
non so quale ineffabile influsso di quel sommo Bene che tutto trae
a sè.
Anche se questa felicità
sarà perfetta solo quando le anime, ripresa l'antica veste
corporea, riceveranno il dono dell'immortalità, gli uomini
pii, dato che la loro vita è tutta una meditazione di quella
vita immortale, e quasi una sua immagine, possono talvolta pregustare
qualcosa, una sorta di anticipazione di quel premio. Si tratta di
una goccia da niente in confronto a quella fontana di eterna felicità,
ma che vale molto di più di tutti i piaceri corporei, anche
se potessimo farli convergere tutti in un punto solo. A tal punto
la sfera dello spirito è superiore al corpo, e quella dell'invisibile
al visibile. Questa certo è la promessa del Profeta: "l'occhio
non vide, l'orecchio non udì, non penetrarono nel cuore dell'uomo
le cose che Dio ha preparato per coloro che lo amano". Questa
è la parte della follia che il passaggio da una vita all'altra
non toglie, ma porta a perfezione. Quelli che hanno potuto parteciparne
- pochissimi invero - sono còlti da un turbamento che alla
follia è vicinissimo; fanno discorsi incoerenti, proferendo
parole strane e senza senso; e poi, all'improvviso, mutano completamente
d'espressione. Ora alacri, ora depressi; ora piangono, ora ridono,
ora sospirano; insomma sono davvero del tutto fuori di sè.
Appena rientrano in se stessi dicono di non sapere dove sono stati,
se nel corpo o fuori del corpo; di ignorare se erano svegli o addormentati;
di non sapere che cosa hanno udito, che cosa hanno detto, che cosa
hanno fatto; hanno solo dei ricordi che sembrano filtrare attraverso
il velo della nebbia o del sogno. Una sola cosa sanno: di essere
stati al colmo della beatitudine quando erano in quello stato. Perciò
piangono per essere tornati in senno, e soprattutto desiderano di
essere in eterno in preda a quel genere di follia. Hanno appena
pregustato la felicità futura!
68. Dimentica di me stessa,
ho passato da un pezzo i limiti. Tuttavia, se vi pare che il discorso
abbia peccato di petulanza e prolissità, pensate che chi
parla è la Follia, e che è donna. Ricordate però
il detto greco: "spesso anche un pazzo parla a proposito";
a meno che non riteniate che il proverbio non possa estendersi alle
donne.
Vedo che aspettate una conclusione:
ma siete proprio scemi, se credete che dopo essermi abbandonata
ad un simile profluvio di chiacchiere, io mi ricordi ancora di ciò
che ho detto. Un vecchio proverbio dice: "Odio il convitato
che ha buona memoria". Oggi ce n'è un altro: "Odio
l'ascoltatore che ricorda". Perciò addio! Applaudite,
bevete, vivete, famosissimi iniziati alla Follia.
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